giovedì 14 marzo 2013

Una lettera su "Il comunista" di Morselli

«Tutto nella vita è inutile, se la morte è invincibile»
(G. Morselli, frammento datato 28 luglio 1967, in Quaderno XV)


Cara C.,


è stato pubblicato nel blog di Monteverdelegge  lo scambio epistolare tra Italo Calvino e Guido Morselli a proposito del manoscritto Il comunista, che il leggendario funzionario Einaudi criticò con intelligenza (e una stilla di veleno), regalando una bella soddisfazione all’autore sconosciuto benché non lo aiutasse a pubblicare presso l’ambita casa editrice. Erano gli anni Sessanta, lo scrittore che aveva militato nel Partito comunista e che aveva dovuto tribolare per ripulire la letteratura italiana dalle ideologie pareva seccato di un romanzo con un simile titolo, proveniente da un signore estraneo alle militanze e a ogni engagement. Perciò mostrava subito una certa qual diffidenza per un «romanzo politico» (ma la politica in Morselli è l’involucro, il bruco per fare uscire la farfalla metafisica, o quantomeno per contenere nella pancia un libretto di Giobbe, una lamentazione del ‘sociale’). Perché non ha scritto un saggio? – è il Leitmotiv della lettera di Calvino. Perché per scavare in quel Pci che neppure conosce (diceva offendendo l’interlocutore o comunque trascurando quel singolare dono mimetico, il calarsi nei panni altrui che era il suo Grande Gioco), per scovare il punto debole del marxismo, inventa dei personaggi di finzione? Se non fosse stato tanto gratificato dalla attenzione di uno dei più celebri letterati dell’epoca, lo Scrittore Postumo avrebbe potuto semplicemente replicare: –  E perché lei, Calvino, invece di mettere a confronto le piccole soluzioni salariali del marxismo con i grandi difetti dell’umanità, il «legno stortissimo» che si nascondeva con pudore al Cottolengo e che sembra inguaribile, irriducibile alle misure umane, perché invece di portare in scena in un grande trattato il marxismo di impronta illuminista e il cattolicesimo dell’epoca pacelliana, o almeno riassumere il discorso in una ‘lezione italiana’,  ha preferito raccontare in un romanzo breve molto breve, la Giornata dello scrutatore?
Le date in fondo erano vicine, La giornata, benché frutto di una gestazione quasi decennale aveva visto la luce nel 1964, Il comunista era terminato l’anno dopo, ambedue ambientati negli anni Cinquanta, ambedue nel Pc italiano, ambedue con protagonisti dei militanti tanto fedeli alla linea nelle prime pagine quanto in odore di eresia nelle ultime. Già queste piccole affinità sarebbero meritevoli di una qualche considerazione (e non mi pare che i pochi che hanno studiato Morselli e i moltissimi che hanno chiosato Calvino ne abbiano fatte), ma anche il succo, il contenuto come si diceva a quei tempi, la morale della favola insomma arriva allo stesso nodo, ovvero quel che la dottrina di  Marx non spiega: la malattia, il dolore del Cottolengo, la natura bizzarra, così come – ben più grave per una scienza sociale, per un ‘punto di vista operaio’ – non spiega come liberarsi dal lavoro, dalla oppressione del lavoro, sfruttato dal capitale o auto-sfruttato dalla stessa classe operaia nel socialismo di Stato o perfino nella fase finale, appena accennata, scarabocchiata con vivaci colori pastello, del comunismo.


Tuttavia l’acuto Calvino non ha l’aria di accorgersi della critica al marxismo, almeno non lo dice a chiare lettere, anzi si chiede perché il candidato alla pubblicazione non si sia limitato a «una divagazione sul movimento operaio emiliano» mentre elogia le pagine sul «retroterra anarchico emiliano», quasi si trattasse della ricostruzione di un pezzo di storia della sinistra italiana. E infatti ritiene che «la discussione ideologica che percorre tutto il libro resta una discussione in margine ai testi». Un commento ai libri, ai classici del marxismo, sarebbe secondo Calvino quel tormentato insistere sulla natura del lavoro, che parte da una domanda ingenua e che diventa il ‘saggio centrale’ del romanzo, l’articolo disperato del protagonista, la causa della sua fuga, della fine d’ogni fede. Ancora una volta, però, Morselli avrebbe potuto rispondere che anche lo scrutatore calviniano, di fronte ai «mostri» del Cottolengo – come ancora si chiamavano senza il ricorso al linguaggio misericordioso attuale –, di fronte alle figure del dolore che mettevano in crisi il suo marxismo, l’uomo corre a casa e si va a rileggere i testi sacri del comunismo, Calvino riporta i brani nelle sue pagine, mentre una ‘fidanzata’ non troppo dissimile da Nuccia, con una consistenza ancora più sottile (si materializza soltanto nella voce telefonica), prova inutilmente a fissare appuntamenti amorosi con chi sta lottando per contenere la vita dentro la misura dei classici marxisti. Sostiene Calvino che «la storia privata del protagonista è messa lì solo ‘per far romanzo’» ma altrettanto, appunto, si può dire della storia di Amerigo Ormea e di Lia, la fidanzata tenuta all’oscuro del travaglio ideologico del povero scrutatore schiacciato – sì, è un paradossale schiacciamento – dall’amore cristiano che soffia sulla Piccola casa della Provvidenza di Torino. Del resto, dopo avere «smontato e rimontato» più volte il romanzo irritante di uno sconosciuto, Calvino si lascia andare a una confidenza: la favola, secondo lui, non è riuscita, ma «il tema centrale è un tema che sento anch’io». Bisognerebbe capire magari quale è il tema secondo lui: la crisi del comunista, la rottura con il partito, l’insufficienza del marxismo o, in modo ben più radicale, la «lotta al lavoro». Morselli si preoccupò nella risposta di volare alto, di parlare del romanzo nell’ora attuale, ripetendo ossessivamente «Lei sa, Calvino», temendo, a furia di sciorinare Lukács e il Nouveau Roman – d’essere scontato in un’occasione così rara nella vita di un isolato, cioè di parlare con il letterato italiano «che sarà letto ancora nel 2000», guardandosi bene dall’accennare al suo motivo intimo, al grido di Giobbe, alla contro-storia del comunismo. Né provò a spiegare i «componimenti misti di storia e invenzione», alla maniera di Manzoni, anche se lui riteneva che il Gran Lombardo avesse troppo rispetto per la Storia, né si cimentò con la distinzione romanzo/saggio, che buttò giù più tardi. Il primo è «illustrabile», argomentava, dunque la cartina di tornasole sarebbe nella «traducibilità grafica».


Il tema del lavoro che non si può liberare diventa un romanzo. C’è una tradizione sulla via del rifiuto del lavoro, più aristocratica che di sinistra. Dal settecentesco Samuel Johnson in poi una letteratura  sotterranea faceva da controcanto al forsennato lavoro industriale che si affermava in Europa. Non si trattava soltanto dell’Apologia dell’ozio di Stevenson che rincorreva i passeggiatori romantici, i flâneurs, i poeti alla Hazlitt  (e che una raccomandabilissima antologia di traduzioni italiane divulgò col neologismo di Narrabondi [Editori Riuniti], per dire di acchiappanuvole chiacchieroni spersi nei boschi britannici), quello era un filone che poteva risalire ai letterati tedeschi della Restaurazione, allo squisito nobile cattolico Joseph von Eichendorff che raccontò le vicende di un Fannullone in giro per l’Italia patria del dolce farniente, né si trattava dell’altro Elogio dell’ozio scritto più tardi dal lord polemista Bertrand Russell che si poteva permettere di sentirsi offeso dall’alacrità moderna e diceva per primo che la felicità, anche a sinistra, nel socialismo buono, consisteva nel lavorare meno, però con pragmatismo britannico subito dopo chiedendosi: che cosa mai faranno nelle ore di ozio le masse abituate a lavorare? Ottima domanda, soprattutto nel Nordeuropa che, a differenza del mondo latino, non ha un sostantivo come otium e deve ricorrere a una  idleness e che paventava i vizi che sarebbero derivati dall’ozio di massa, dalle utopie fiorite negli ultimi due secoli rudemente lavorativi (nessuno avrebbe immaginato le miserie del ‘tempo libero’, l’organizzazione carceraria del tempo liberato dal lavoro, dei weekend post-proletari nei musei del contemporaneo, a contemplare la merce dopo averla prodotto negli altri giorni…). Ma la sinistra rimase pigramente attaccata per decenni al valore del lavoro degli schiavi moderni, non rispose, non lesse neppure di quel fantacomunismo che pareva realizzarsi nella terra del capitalismo, di quell’automatismo che liberava almeno dalla fatica più selvaggia, e che appassionò un sociologo e filosofo marxista dell’Istituto di ricerche sociali di Francoforte nella sua versione Usa, cioè dopo l’abbandono precipitoso della Germania, quando Adorno e Horkheimer lo dirigevano da una villa della periferia di Los Angeles: Friedrich Pollock (1894-1970), un esponente rimasto nell’ombra tra i ‘francofortesi’ anche quando ebbero negli anni Sessanta il loro momento di grande celebrità, e benché lui fosse il padre fondatore della Frankfurter Schule, e che per primo, forse, si pose il problema del superamento del lavoro grazie alla tecnologia già nel periodo anteguerra (appena una traduzione oscura da De Donato, se non ricordo male). Ma quando nel dopoguerra i padri costituenti scrissero la Magna Charta italiana ignoravano di sicuro quelle ricerche e furono fieri di inserire il preambolo sulla repubblica «fondata sul lavoro», giocando anche sul doppio senso della parola che si veniva a contrapporre a capitale, lavoro cioè come massa di salariati, ma naturalmente lavoro come valore socialista ottocentesco, nel senso di «chi non lavora non mangia», che è un ammonimento di Paolo interno alle prime comunità cristiane e che diventa sferzante condanna dei tempi moderni battezzati dal calvinismo e quindi assai cattivi con i disoccupati e i vagabondi in genere. Suscitava perciò quella Costituzione i frizzi e i lazzi dei sovversivi di quarant’anni fa, prima che gli attuali, più bigotti, si convincessero di possedere, Dio sa perché, la «Carta più bella del mondo».


Nei primi capitoli del romanzo si capisce che il periodo duro dello stalinismo è finito, che la corruzione del boom è cominciata, e ci si aspetta un po’ di colore sul Partito comunista anni Cinquanta, sul moralismo piccolo borghese che salta agli occhi dei liberali, o anche sul confronto tra operai americani e operai europei, magari con lo scontato ultimo posto di quelli sovietici, nel paradiso del comunismo realizzato, seguendo le avventure del protagonista sbattuto dalla Storia in Usa e in Urss (Morselli aveva un fratello che insegnava in un’università americana e che forse, come sospettava Calvino, gli era servito un po’ da modello), ma all’inizio del V capitolo arriva improvvisa una domanda imbarazzante per Walter Ferranini, per i comunisti, per gli umani tutti: «Ma quando saremo liberati dal lavoro?». È un ferroviere, alla stazione di Reggio Emilia, che pone la domanda cruciale e in modo accorato. Non quando sarà liberato il lavoro dal capitale, il lavoro dagli sfruttatori, ma liberato l’uomo dal lavoro. Quando finirà la pena del lavoro? E la questione prende subito a tormentare il povero comunista: «Sai che ha detto in ultimo quello Zamboni? Ci promettete la liberazione dal capitale, ed è una bella cosa, però sarebbe più bello se ci liberaste dal lavoro». Così ripete a Nuccia, e subito lei risponde con il buon senso con cui i comunisti italiani replicheranno a tutti gli eterodossi che dopo il Sessantotto porranno la domanda fatale al maggior partito della sinistra: «Dal lavoro? E come si fa, non è una sciocchezza?». Ma Walter è un comunista strano, che conosce bene Marx come pure la fatica del lavoro salariato: «Non è una sciocchezza, tanto è vero che i classici prevedono una riduzione al minimo del lavoro dopo attuato il comunismo. Ma a me pare che  il lavoro non potrà essere ridotto e tanto meno abolito. Lo impedisce una legge che non è economica, è biologica, o è semplicemente fisica». Ferranini ha già una sua risposta. Il comunista super-ortodosso nasconde una incrinatura nella fede: c’è qualcosa che va oltre le questioni economiche che il marxismo a suo parere sa risolvere, e sono questioni di natura, di fisica. Ora proprio con lo stalinismo ci si era inoltrati su quel sentiero difficile, sul quale alcuni scienziati sovietici, pur con molti dubbi e con l’avallo ondivago del dittatore-filosofo (che si presentava come un filosofo), tentavano di lavorare per modificare la fisica e la biologia, per cambiare davvero la vita, per superare la morte. Il marxismo diventava senza più sfumature una religione. Ma lo stalinismo, quando s’apre il romanzo, è già stato condannato dal successore di Stalin, già si parla di quegli esperimenti come di ‘magia rossa’ (per es., nell’episodio del Viaggio in Urss con Amoruso, non mancano i riferimenti a quel tipo di scienza sovietica). Allora, se le leggi di natura sono lì imperiose, più ferree di quelle economiche, Ferranini sa che il comunismo che tanti sacrifici richiede, a lui per primo, e ai popoli di tutto il mondo, è appena un palliativo sociale. Lo metterà nero su bianco, in modo ingenuo, sul bimestrale «Nuovi Argomenti».


Prima c’è ancora da ripulire il concetto dalle scorie burlesche degli oziosi e vi si presta il personaggio del napoletano medico gaudente, il «collega» deputato Amoruso: «Faticare è perverso – osservò Amoruso. – E a me lo dici, a me napoletano? – Non scherzare, andiamo! – Perché, io scherzo?  Professionalmente constato che la fatica è un fatto anti-fisiologico, anzi, patologico. Senti – fece Ferranini. – Opporsi alla concezione del lavoro umano è difficile, e io stesso non ci riesco. Ma già da un pezzo io mi domando se possa esserci socialismo senza una sconsacrazione del lavoro». Il medico Amoruso stava  tratteggiando ancora una volta le questioni della salute da un punto di vista di classe. Walter andava più lontano, metteva in causa i termini ultimi del suo socialismo, «perché la schiavitù del lavoro rimane (senza sfruttamento da parte dei nostri simili, è vero)…». Poteva forse bastare questo sfruttamento in proprio all’intellettuale, all’operaio ideologizzato che aveva ingaggiato una battaglia con il capitalista, ma per il semplice lavoratore abbrutito dalla fatica che importava se il negriero fosse il padrone privato o lo Stato dei soviet? «Prendete Robinson Crusoe, quello faceva tutto da solo, eppure il lavoro era pesante pure per lui». Morselli mette la maligna battuta in bocca a un comunista, in una discussione tra comunisti, ma discorsi di questo genere riducevano il marxismo a una dottrina per risolvere problemi quotidiani, prosaici, sul salario, sulla pancia più o meno piena; la fatica, le malattie, la morte, le grosse questioni degli umani non erano spiegate nei volumoni di Das Kapital. «Per me il lavoro e i suoi mali – disse Ferranini – sono una delle facce della sofferenza che l’essere vivente deve per forza subire. Per sopprimere questa sofferenza bisognerebbe sopprimere il dualismo che c’è, l’antagonismo che c’è, fra gli esseri viventi e il mondo inorganico». Jünger e Benjamin, negli anni Trenta vedevano una crescente oppressione dell’inorganico, c’è chi lo traduceva subito nella frase di Marx sul lavoro morto che incombe sul lavoro vivo, il lavoro morto che succhia quello vivo, vampiri astratti (non i capitalisti panciuti e con i baffetti) che dissanguano l’umanità. Ferranini pensava alla «ostilità attiva dell’ambiente». Nessun socialismo, si dice Ferranini con i suoi pochi amici, «cambierà la sostanza del vivere».  Se è vera questa premessa, l’«alienazione» di cui in quegli anni i film di Antonioni mostravano gli effetti negli interni borghesi, era una faccenda estranea ai lavoratori, una faccenda filosofica, che poteva pure essere superata mutando la forma capitalista ma lasciando appunto inalterata la «sostanza del vivere». Chiedete alle dattilografe che hanno battuto a macchina per un giorno – argomentava Ferranini – se si sentono alienate, vi diranno: «stanche, ci sentiamo».


«Nuovi Argomenti» era la rivista adatta per un articolo come quello del protagonista. Non è vero naturalmente che negli anni Cinquanta sarebbe potuto apparire su «Rinascita», come sosterranno gli inquisitori rimproverandogli di avere pubblicato uno scritto su una questione interna al Partito in un periodico ‘borghese’. Borghese poi! Certo, nonostante l’impostazione marxista, il periodico di Carocci, Moravia e Pasolini ospitava non solo gente e temi di sinistra. Dalle inchieste sulla destalinizzazione del tempo, ai saggi di Sergio Solmi, del liberale Solmi, sull’estetica marxista, ai saggi dell’‘anticomunista’ Nicola Chiaromonte. Morselli vi avrebbe potuto scrivere il suo saggio sul lavoro senza nascondersi da comunista in crisi, ma Morselli aveva pochi contatti anche con le riviste, per cui ordì un romanzo per pubblicare un saggio. Egli riassunse anni di studio del marxismo in un articolo di tre cartelle (così come si immerse per anni nella teologia prima di scrivere Roma senza papa; letterati d’altri tempi, Hermann Broch si dedicò per lungo tempo alla conoscenza approfondita della patristica per potere affrontare i delicati temi della magia nera dei dittatori moderni nel suo Romanzo della montagna  lasciato poi incompiuto…).


Anche negli Appunti sul marxismo, breve saggio del 1949 che ora sta in La felicità non è un lusso (Adelphi), il sottile saggista che era Morselli critica l’antropocentrismo di Marx come poi farà il suo Ferranini, ma è nei primi anni Sessanta, come propedeutica alla stesura del Comunista che il romanziere si consacra per un anno al rigoroso studio dei classici del marxismo. Non serviva sicuramente a rafforzare il modo di parlare e di pensare del protagonista del suo romanzo, bensì a trovare il punto debole di quella teoria. Quanti fantasiosi solitari si consumano per rovesciare la teoria della relatività o quella della economia bancaria, in  molte portinerie delle città sudamericane – è stato detto – si nascondono i fedelissimi di Spengler che consumano gli occhi sulle centinaia di pagine del Tramonto dell’Occidente – , quasi sempre con spirito vendicativo; Morselli è fraterno nel suo accorgersi dell’impossibilità di superare la condanna al lavoro. Non trasforma questa scoperta in una bandiera anticomunista, la fa annunciare da un malinconico comunista che continuerebbe la sua lotta a fianco dei lavoratori senza speranza se non fosse umiliato dai dirigenti. Né l’interesse per Marx finirà con il romanzo Il comunista. L’ultima commedia di Morselli sarà dedicata alla figura del teorico del comunismo moderno (inviata in lettura a Vittorio Gassman,  rimase come sempre senza risposta).



C’è una premessa su Hegel, in quel saggio che la finzione vuole pubblicato da «Nuovi Argomenti», che è anzitutto una prova virtuosistica del mimetismo di Morselli: il saggio marxista cominciava sempre con un excursus hegeliano, almeno che non provenisse dal filone kantiano dei seguaci di Della Volpe, comunque minoritari, e poi anche i ‘kantiani’ mettevano in evidenza le influenze nefaste di Hegel su Marx. In ogni caso il saggio parte da lontano, dal mondo «pre-tecnologico», dalle ingenuità umanistiche del primo Marx, per arrivare all’oggi, al mondo del «post-capitalismo», come dirà con linguaggio audace in un altro punto del racconto. La natura ci domina con il freddo, la fame, la paura, la malattia, e appunto il lavoro. «Lavorare […] non è l’affermarsi della nostra personalità», ossia non è come dice il Marx più utopista, nel comunismo di ciascuno secondo i suoi bisogni, dei creativi che impostano la loro vita come meglio credono perché hanno raggiunto, grazie alla fase della ‘dittatura del proletariato’, lo stadio del paradiso in terra. Altro che alienazione, «siamo soffocati», ripete il protagonista con il suo fiato corto. Alla parola alla moda «alienazione» contrappone il termine più duro e triste «mortificazione». Lavorare non è diverso «dalla pena del nostro dover resistere  ogni giorno alla malattia e all’invecchiamento, al disfacimento organico». Quale dottrina sociale poteva offrire un ausilio per combattere l’invecchiamento e il disfacimento dei nostri corpi? Così il lavoro non trovava rimedio: «il lavoro con la sua penosità è dunque una condizione universale e insopprimibile. Senza rimedio». Sono le ultime parole del capitolo XI, Morselli taglia a questo punto l’articolo del suo protagonista, lo riprenderà, letto a voce alta da una ragazza comunista, nelle pagine successive. Qui si chiude con la condanna definitiva del marxismo come salvezza dell’umanità: «senza rimedio».


Nella bocca della giovane militante ortodossa le parole di questa specie di manifesto suonano ancora più scandalose, più distanti, più stupefacenti. Il riscatto consisterebbe, «ma non è possibile», nell’allontanare le cose da noi, nell’allargare lo spazio per meglio  respirare, mentre dobbiamo continuamente rimuovere le cose che ci circondano per aprire «un adito alla vita». Si lavora agli ordini di un capitalista o della classe operaia ma se anche questi scomparissero, se anche si fosse dunque nella società senza classi, «la nostra sorte non cambierebbe». Sicuramente inverosimile, nessun comunista poteva concludere così un articolo, neppure il più spregiudicato, senza ambiguità, senza un finale che permettesse la sopravvivenza teorica della organizzazione comunista, senza dare una giustificazione intellettuale anche a se stesso, ma la contro-storia di Morselli ricorre a una verosimiglianza molto particolare.


La piccola inquisizione alle Botteghe Oscure torna sul tema dominante, ma a quel punto per l’autore si tratta più che altro di trovare delle pezze d’appoggio alla teoria di Ferranini. Il Marx anti-umanista fa pensare allo strutturalismo althusseriano ante litteram, ancora una volta sorprendente il nostro Morselli. «L’ambiente conta di più degli uomini e della storia» afferma l’inquisito, e vengono evocati dagli inquisitori i termini fascinosi di neo-capitalismo, automazione, che stregheranno la sinistra, che prometteranno un po’ più di benessere, che seppelliranno il comunismo eroico. Sono cominciati gli anni dell’opulenza kennedyana. Prova a resistere Ferranini: «L’inevitabilità del lavoro, come la mortificazione che il lavoro determina, dipende da condizioni obbiettive, ossia dalla posizione che la vita, non solo la vita umana, ha dentro la natura». Ribattono sarcastici gli inquisitori comunisti: «Ma andiamo! Chi non sa che il lavoro è prezioso, e che fa bene alla salute». Con il medesimo sarcasmo si accostavano negli anni Settanta i medesimi inquisitori del Pci ai ragazzi di Potere Operaio che lottavano «contro il lavoro». Ferranini «avrebbe voluto ribattere: sono tutti capitalistici i regimi dove è utile dire la menzogna che ‘il lavoro fa bene’. Ma preferì stare zitto». Volò in America, la militanza comunista era finita.   


I ragazzi di Potere Operaio non avevano letto Il comunista di Morselli (uscì nel 1976 ma senza grande eco), combattevano il lavoro salariato secondo le indicazioni di tre paginette del volume di Mario Tronti, Operai e capitale, che s’intitolavano appunto «Lotta contro il lavoro!». La data apposta in fondo al manoscritto di Morselli, 1964-1965, attesta che la fantapolitica anticipava come in molti altri casi la politica realizzata. E uno scrittore isolato e blasé scuoteva l’ideologia, offriva una acuta critica del marxismo dentro uno pseudo saggio contenuto in un romanzo. Quello scritto era costretto a restare segreto, dattiloscritto, nel cassetto del suo autore e in quelli magari dei tanti editori cui lo spedì invano. Probabilmente, non ho documenti in proposito, la fonte originaria può essere stata  Paul Lafargue, Le droit à la paresse: a differenza di chi, in un impeto di mimetismo (non letterario in quel caso), faceva propri i valori dell’avversario ed esaltava la fatica umana, il genero di Marx, provava a spiegare l’inferno del lavoro salariato, ma figlio del più schematico illuminismo, a caccia dei complotti della Chiesa con il Capitale, disegnava un mondo dove insieme al lavoro ci si potesse liberare dal dolore e dalla morte, una fiaba, un progetto puerile. Finì che Lafargue mise termine ai suoi giorni con un suicidio condiviso con la moglie, onde evitare i «mali della vecchiaia». Ecco comunque accomunati anche a sinistra lavoro, vecchiaia, malattia, morte. Morselli fa riflettere il suo protagonista malato e invecchiato precocemente su questi Novissimi. «Perché si soffre?»: è la domanda  che dà il titolo a un suo saggio che fa parte di Fede e critica (Adelphi). Nel Diario annotava come a cento anni da Marx non si registrasse «un alleggerimento della fatica degli operai», le «8 ore» venivano stravolte dallo straordinario, né diminuivano gli infortuni sul lavoro, in Occidente come nei paesi comunisti. Questi saranno del resto i tormenti di Walter Ferranini nel suo incarico parlamentare.


La compagna di una vita di Morselli racconterà a Valentina Fortichiari, curatrice dell’opera interamente postuma, come il Grande Dilettante avesse un’unica ossessione, o forse quella che riuniva tutte, ed era la religione. Si tormentò sui libri di teologia, oltre che su quelli del marxismo, e finalmente nel 1968, sempre secondo il racconto della donna che lo accompagnò nei lunghi e infruttuosi pellegrinaggi presso gli editori, lo vide cadere in ginocchio davanti a un altare e pregare. Un’assonanza si potrebbe trovare con un altro autore di quegli anni, Norman O. Brown, che dopo essere stato marxista come Walter Ferranini, si appassionò alle questioni del corpo, non solo del corpo al lavoro, e si ritrovò dalla parte della teologia cristiana che promette la resurrezione della carne (v. il suo La vita contro la morte, Adelphi). Ma Morselli non fu mai marxista, non c’è alcuna abiura. «Votava Democrazia cristiana e ne era convinto», dichiarerà la sorella. Cattolico poco praticante, si riaccosterà alla Chiesa nell’ultima parte della sua vita.


Nel 1966 usciva la risposta marxista alla resistenza disperata al lavoro di Morselli: Operai e capitale (Einaudi) proponeva di combattere il lavoro e di vincerlo. Non si affidava alle utopie, ripudiava l’ideologia, si presentava realistico, fattuale si voleva con accento weberiano. Il suo autore era un eretico che non amava però la posizione degli eretici. Qualcuno considerò quel libro come la negazione del marxismo, una sinistra che non venera il lavoro, che lo maledice, non è sinistra, va oltre ogni estremismo. Un marxismo bollato come estraneo alla sinistra fu per gli ortodossi di allora. Vi si leggeva contro l’ideologia gramsciana: «L’operaio non sa che farsene della dignità del lavoratore. E l’orgoglio del produttore lo lascia tutto quanto al padrone. E solo il padrone c’è rimasto a fare l’elogio del lavoro». Sono parole che paiono rubate ai pensieri di Walter Ferranini ma ovviamente Tronti non conosceva il manoscritto dello scrittore che non riusciva a pubblicare in vita. In un altro passaggio si parlava addirittura di «organizzare l’alienazione»: lontano dai rimpianti degli intellettuali, invisi a Tronti come a Ferranini, in modo da non riprendersi il valore ‘artigianale’ del lavoro finito nei prodotti, ma separarsi nettamente da questi, rifiutare la prosopopea di ogni aristocrazia operaia. Eppure un abisso separava le due teorie. Qui non c’era da contrapporre la petrarchesca «vita beata» alle officine robotizzate, qui non si guardava con indulgenza ai piccoli passi del riformismo che può ottenere ridottissimi diritti pur sapendo che la schiavitù del lavoro è insuperabile, qui si pretendeva di rivoluzionare l’umanità e si metteva a fuoco con fare scientifico il Doppelcharakter del lavoro rappresentato nelle merci e la «natura duplice della classe operaia». Si predicava allora che per lottare contro il capitale, «la classe operaia deve lottare contro se stessa in quanto capitale». Parole d’ordine altisonanti, strategiche: «Lotta operaia contro il lavoro, lotta dell’operaio contro se stesso come lavoratore, rifiuto della forza-lavoro a farsi lavoro». In pratica, ridurre viepiù le ore lavorative e strappare quanto più salario possibile. Il capitale sarebbe stato costretto a ricorrere all’automatismo ma la forza politica operaia avrebbe impedito la conseguente disoccupazione. La maledizione della fabbrica si sarebbe ridotta fino a toccare lo zero? «E il lavoro come ‘primo bisogno della vita’?» si chiede anche Tronti che in quell’opera giovanile nulla concedeva al sentimento. Si risponde pericolosamente: «Forse conviene trasportarlo nella prospettiva futura del comunismo…» [Operai e capitale, Torino 1973, pp. 259-263 passim]. Anche il più anti-ideologico finiva per rinviare la questione essenziale alla fase utopistica, a quella che non sarebbe stata all’ordine del giorno neppure per i nostri figli.


Tronti avrebbe trovato forse qualche affinità con le pagine dolorose di Morselli più in questi ultimi anni che ai tempi del suo «rifiuto del lavoro» quando celebrava la classe operaia come «rude razza pagana», un po’ sull’onda dell’Arbeiter jüngeriano. Ancora nel cuore del Novecento, gli sembrava che il Moderno fosse occupato interamente dal capitalismo, mai nessun Impero o Chiesa avevano raggiunto questo livello, e cercava una teoria all’altezza dello scontro. Poi la classe operaia cominciò a scomparire, gli operaisti parlarono di immane sconfitta. Oggi, con tono più religioso, parafrasando il concetto paolino di katechon  poi ripreso da Carl Schmitt [sul difficile argomento, Cacciari ha pubblicato in questi giorni una piccola antologia e un lungo saggio introduttivo da Adelphi, Il potere che frena], Tronti si trova a ricorrere addirittura a una Chiesa che assolve una importantissima funzione: quella «di trattenere la modernità, di ritardare l'accelerazione dello sviluppo» (Quel circolo di sacro e secolare, intervista pubblicata da «il manifesto», 29 aprile 2005). Antropologicamente ormai si pone un problema molto serio a livello planetario, vale a dire il contrasto fra una accelerazione sempre più vertiginosa «del tempo nella produzione, nei consumi, nelle comunicazioni, nell’uso di massa della tecnologia, e i tempi umani che non riescono ad assorbirla, fanno fatica a starle dietro, con tutte le conseguenze che ben conosciamo in termini di comportamenti di massa: assunzione superficiale dell’innovazione, accettazione leggera di tutto quello che passa il mercato, acquisizione volgare del benessere e della ricchezza» (ivi). Una sinistra moderna, osserva Tronti per la parte politica che lo riguarda direttamente, «dovrebbe farsi carico di questa contraddizione invece di mettersi al seguito della corsa», invece cioè di rincorrere sempre e comunque il nuovo che avanza modellando pensiero e agire politici unilateralmente su di esso senza mai preoccuparsi di trattenere qualcosa, di ‘ritardare’ per l’appunto «l’accelerazione dello sviluppo» su tutti i piani della vita storica individuale e collettiva. Su questa strada, ricordando il Concilio in un recente articolo pubblicato dall’«Unità», il vecchio operaista arriva a considerare la Chiesa post-conciliare come una istituzione che cede costantemente alla modernità sua nemica, che si lascia svuotare la fede dalla tecnologia massmediatica, proponendo a questo punto ancora un altro confronto: anche la politica si lascia incantare dalla modernità e perde il suo più profondo senso, anche la sinistra insegue il pensiero unico dei giornali, il buonsenso dei moralisti, degli economisti, ecc.  Il rivoluzionario si è fatto tatticamente conservatore ma continua a credere che un giorno lontano (non si sa come e perché) il lavoro sarà sconfitto. L’autore del Comunista non aveva dubbi che sconfiggere il lavoro è la stessa impresa che sconfiggere la morte, le due maledizioni bibliche; non è perciò affare della politica.


Se non c’è sistema politico o sociale che riesca a liberare il lavoro, se è ormai sepolta l’utopia del comunismo che libera l’uomo dai suoi nemici, il lavoro e la morte, poco fascino hanno le rivoluzioni. Proprio negli stessi anni di Morselli, un prete letterato, amico di Togliatti e di Giovanni XXIII, don Giuseppe De Luca, scriveva un piccolo pensiero che se fosse capitato sotto gli occhi di Walter Ferranini nell’ultimo viaggio aereo del romanzo avrebbe attirato sicuramente le sue robuste sottolineature (l’autore in effetti non parla di come il suo comunista autodidatta sottolineasse i libri ma io me le immagino molteplici e spesse nel tratto): «L’economia è una bella cosa, una cosa grandissima nella nostra vita; si ebbe un torto pazzo a non accorgersene tanto prima, ma è e non può essere tutto. Non dico una passione d’amore, non dico un momento di poesia; ancor meno voglio nominare Iddio, la sua grazia, la sua gloria. Non dico un piacere, un dolore, la morte. Dico il sorriso subitaneo di un bambino, il rannuvolarsi doloroso d’un volto d’uomo, una voce smarrita in una sera deserta. Son tutte cose, codeste povere cose, le quali colpiscono più a fondo il cuore dell’uomo che non tutta la sua stessa fame. Aver ridotto per intero (ripeto, per intero) la nostra vita a una faccenda essenzialmente economica, è proprio la risultante che ci meritavamo, di un’epoca intesa soprattutto all’industria e ai commerci. La rivoluzione contro il capitale è la ribellione di una figlia al padre». Diceva queste cose proprio negli stessi anni del Comunista. Aveva scritto anche, e chissà avrebbero potuto apparire nelle polemiche sui giornali dopo il saggio di Ferranini, queste parole: « Non esistono, ahimè, rivoluzionari i quali si pongano in cuore di fare una rivoluzione contro la morte, contro il patimento fisico, contro l’amarezza inesauribile, incolpevole, cocente dell’animo, contro i moti sregolati e subitanei del cuore. Le rivoluzioni che finora si conoscono scoppiarono tutte, dal più al meno, non sopra il pane quotidiano, bensì sul maggiore o sul minore agio. Il quale agio è altra cosa, ben altra cosa dal pane quotidiano: l’agio è la prima, ancora innocente, quasi bella e cara, maschera della ricchezza […]». Ma Ferranini era saldamente ateo e non poteva sottoscrivere le righe che seguono:  «Noi non si ha bisogno, alla fine, di questo, di quello, di quell’altro: tutte trappole, nuove trappole e nuovi inganni. Si ha bisogno di gioia. Se il paradiso è, come è, il luogo della gioia, chi quaggiù ne ottiene anche un minimo, di questa gioia, ristabilisce per quanto è in lui e riapre il paradiso terrestre […]» (da Bailamme, Morcelliana, 1963).


A rappresentare il comunista di Morselli in un’immagine, viene da pensare a Mario Sironi, all’arcaica visione del mondo moderno, talché Attilio Bertolucci parlava di quella pittura come di macchine rese «con una certa tetraggine», macchine «non più allegre come nei futuristi» (e anche, si potrebbe aggiungere, nei marxisti della redenzione finale, nel tripudio gioioso delle bandiere rosse) «ma grevi e squallide come nella realtà di chi le usa» (in Inedite energie). Se non si fosse mosso esclusivamente all’interno della ‘scienza’ marxista, Morselli invece di collocare sullo sfondo i miseri lavoratori delle cooperative socialiste e l’inferno della classe operaia sovietica come statunitense, d’ogni luogo, come universale è la malattia e la morte, avrebbe potuto citare la biblica condanna degli Adamo ed Eva incarnati nelle sculture di Wiligelmo. Così, le storie del romanzo che si snodano nel maggiore partito ateo dell’Occidente avrebbero trovato il centro nella sentenza che appare in Genesi 3, 19: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane». La condanna divina al lavoro con cui Adamo esce dall’Eden si accompagna all’altra condanna, parallela, «moltiplicherò i tuoi dolori» (Gen. 3, 16) con cui la coppia lascia il paradiso dopo la Caduta.


Anche se sembra che nella piccola corrispondenza sul Comunista, datata ottobre 1965, Calvino e Morselli si parlino per la prima volta, c’è una lettera del 1963 di Morselli – riportata da Valentina Fortichiari in una biografia fotografica (Guido Morselli. Immagini di una vita, Rizzoli 2001) –  che mostra una maggiore familiarità con Calvino. La trascrivo perché nelle ultime righe allude a qualcosa di interessante nel nostro discorso, e lo lascio così sospeso:


«10 febbraio 1963. Caro Calvino, qui da me, a Santa Trìnita, non ho né aspirapolvere né frigorifero (d’estate, ci ho un bosco vicino, metto le bottiglie al fresco nel bosco). Non ho nemmeno la TV! In cambio, ho un discreto cavallo da sella col quale esploro la montagna che incombe subito dietro la mia casetta. Ho piantato questo autunno certi rosseggianti pini di Scozia, i cui rami ricchi di materia resinosa dall’aroma profumato, ho messo da parte (potati da me, si capisce) da bruciare sul caminetto nelle grandi occasioni. Lei mi venga a trovare, e il pino di Scozia arderà in suo onore. Sant Trìnita, ossia Gavirate (prov. di Varese), è a 70 minuti di treno diretto da Milano, e so che Lei a Milano viene abbastanza spesso. Lei si persuaderà che, se l’alienazione marxiana è l’amaro frutto insopprimibile dell’industrialismo, c’è un genere di alienazione, toto coelo diverso e meno grave, contro la quale l’attaccamento alla terra ‘dat mediacamina’».


Spero con queste paginette di non avere invaso la fantasia della lettrice di un curioso romanzo con troppe immagini (e troppo ‘flagranti’) della realtà lontanissima del Novecento.



f.

roma, 11 marzo 2013

1 commento:

  1. Sono emozionato e contemporaneamente assai lieto di stare in un gruppo che condivide materiali come questi, letterariamente così elevati. . . La riflessione sulla personalità di due scrittori italiani è innanzitutto un saggio di buona, attenta e sensibile lettura.

    Il fil rouge avviato con Pasolini e il nostro bel quartiere continua senza soste con tutte le iniziative, gli interessi, i coinvolgimenti, passando per Caproni, Parise, Balestrini, Morselli, Calvino. . .
    Tira aria di sinistra a Monteverdelegge e sembra anche una buona aria!
    Grazie a tutti voi, giovanni m.

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