martedì 25 giugno 2013

Volodine, la bellicosa ricchezza della diversità

Antoine Volodine, Scrittori
traduzione di Federica Di Lella e Didier Alessio Contadini
Edizioni Clichy, pp. 180, euro 16

Leyla Khalil
Volodine non si sbizzarrisce con i titoli.
Scrittori. Écrivains, in francese. Punto e basta.
Eppure dietro il titolo scarno, in questa prima opera tradotta in italiano dello scrittore francese Antoine Volodine si cela un mondo. A cui, seppur parzialmente, si è tentato di iniziare i lettori e le lettrici nell'articolo La Grasse Matinée – I bei libri sono scritti in una sorta di lingua straniera, sempre scritto dalla sottoscritta.
L'autore parla di un mondo che sta ovunque e da nessuna parte, plasma ambienti familiari per straniare il lettore l'attimo dopo. Seppur con una dose immensa di pessimismo, Volodine riesce nel fanciullesco intento di sorprendere il mondo inquadrandolo da angolazioni del tutto nuove. Al post-modernismo degli impiegati annoiati, alienati, per cui tutto è noto, tutto è routine ripetitiva, il misterioso autore francese risponde dando voce a personaggi che danno conferenze dall'oltretomba, come Maria Trecentotredici, a scrittori falliti che nominano tutti i loro personaggi con le numerosissime declinazioni di uno stesso nome, Wolff, a bambini cantastorie, a folli. Scrittori tutti, sì, ma ognuno a modo suo.
Soggiacente, il fil rouge della diversità come ricchezza:sono scrittori fuori dal coro, quelli di Volodine, e fuori dal coro sono i loro nomi ibridi, metafora di un mondo in cui si sono rimescolate le carte e non ce n'è uno che abbia conservato un'identità univoca. Diversità come ricchezza, nel mondo post-moderno di Volodine. Di fronte al nazionalismo sbandierato dai tanti poeti-vate esistiti fino ad oggi, Antoine Volodine racconta un mondo estraneo e straniero in cui il triangolo autore-nazione-cultura è sgretolato, sfaldato, e un universo senza connotazioni, familiare a tutti e al tempo stesso a nessuno, prende forma nella mente del lettore sconcertato.
Se alcuni racconti sono di facile accesso e con ogni probabilità criticamente ironici verso un certo tipo di scrittori, penso a “Ringraziamenti” che, come dice il titolo stesso, si sviluppa attraverso un lunghissimo elenco di ringraziamenti ognuno dei quali cela una potenziale storia a sé (un esempio: “Grazie alla documentarista della sinagoga di Praga, A. T., che, dopo aver cercato invano insieme a me la data di nascita di Franz Kafka, mi ha invitato alla trattoria all'angolo per una cena improvvisata e forse mi avrebbe permesso di riaccompagnarla a casa sua, che non era molto distante, se il suo ragazzo non avesse fatto irruzione nella trattoria manifestando il chiaro proposito di occuparsi lui stesso della cosa”), ve ne sono altri in cui più piani temporali e spaziali si uniscono:l'infanzia, un ospedale psichiatrico e la guerra fredda, celle di prigione.
Il mondo di Volodine ha pochi connotati, ma è pieno di guerra. Come a dire che non ci si può sbagliare, tanto la si trova ovunque. L'autore scimmiotta continuamente l'ambiente élitario dei letterati, le loro conferenze, le definizioni complicate, i saggi biografici, eppure al tempo stesso li riscrive riga dopo riga:scrive i suoi autori, quel mondo fantastico di personaggi inventati, Linda Woo, Kurilin, Maria Trecentotredici, Boris Tarassev. Si prende gioco anche del pubblico e, se da un canto finge continuamente di facilitargli la lettura tramite continui elenchi, spiegazioni, chiarificazioni, dall'altro ogni parola spacciata per spiegazione si rivela utile soltanto ad aumentare il senso di vertigine e smarrimento, e ciò che si ottiene è soltanto un'ulteriore oscurità. Ma gli scritti di Volodine vanno letti così, con la torcia, ad illuminare continuamente nuovi aspetti di un mondo già noto. Come se si ripercorresse il mondo ad occhi bendati e di colpo si cominciasse a far caso a nuovi spigoli, convessità, salite e discese, gradini e burroni che prima non si erano notati.
Cosa curiosa, “Scrittori” è ridefinizione continua del concetto di post-esotismo di cui Volodine stesso è padre. I racconti, infatti, limano e ritagliano numerose definizioni della scrittura post-esotica. Per dirne una: “Le voci urlanti sono come il post-esotismo, vengono da altrove e non vanno da nessuna parte oppure vanno verso l'altrove. Si possono sentire, ma in realtà parlano tra di oro, cioè non parlano a nessuno.” Oppure: “Così e solo così deve essere recepita la letteratura post-esotica: come un'ultima testimonianza inutile e immaginaria, pronunciata da individui allo stremo delle forze o dai morti e per i morti. La nostra parola. […] Tuttavia, finché avremo un po' di fiato in gola, rinnoveremo ancora e ancora la magia insensata di questa parola, ci inoltreremo nel linguaggio e diremo il mondo”. Quest'ultima citazione è senz'altro esplicativa di quello che il post-modernismo è, nel suo profondo:un tentativo folle, un volo pindarico per non arrendersi alla “fine dei viaggi” di L. Strauss, un tentativo coraggioso spinto dalla voglia spiazzante di “dire il mondo”.
Come? Volodine lo accenna in un altro racconto: “Qualcuno aveva carta e penna, il che in alcune prigioni in cui era stato non era consentito, compilava elenchi di vocaboli immaginari, per esempio di nomi di specie vegetali, di nomi di popoli perseguitati o sterminati, oppure semplicemente di nomi inventati di vittime dei campi”. Che poi è quello che Volodine stesso fa.

Un visionario, insomma, che, per dirla facile, se la canta e se la suona o, per dirla difficile, scrive il manifesto del suo stesso pensiero come se fosse sufficiente a costituire un intero movimento letterario. Forse perché Volodine, che ha pubblicato sotto vari pseudonimi, continua a sentirsi non uno ma molti e, a nome di questi molti autoruncoli post-esotici denigrati dall'universo a noi noto, scrive manifesti dall'aria pomposa. Un visionario eccentrico, sì, ma ci voleva una figura del genere per meravigliare di nuovo il mondo.

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