giovedì 25 luglio 2013

Verso l'infinito, e oltre

Cosmolab - Svelare il cosmo tra quasar e radiazione di fondo è il titolo dell'incontro che si tiene domenica 28 luglio alle 21 al Planetario di Roma. Insieme al fisico Paolo de Bernardis dell'università di Roma La Sapienza sarà possibile osservare in tempo reale lontane galassie e quasar grazie al Telescopio Virtuale del Bellatrix Observatory. In attesa dell'incontro proponiamo un ampio stralcio dell'introduzione al volume Osservare l'universo che de Bernardis ha pubblicato per la casa editrice Il Mulino nella collana "Farsi un'idea".

Paolo De Bernardis
«Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / silenziosa luna» si chiede il pastore errante. Leopardi, che tra l’altro scrisse un’imponente storia dell’astronomia, si mette nei panni di una persona semplice, che potrebbe collocarsi in una qualunque epoca, e che tuttavia si pone una domanda di valore universale, la stessa che portò Newton – in un contesto culturale assai diverso – a scoprire una delle leggi fisiche fondamentali: la legge di gravitazione. Le grandi domande sono insite nella natura umana e l’ambizione, l’impegno e la capacità di rispondere ad alcune di esse ci caratterizzano e ci distinguono. (…)
Tutte le antiche civiltà hanno elaborato cosmologie, basate sul mito, per cercare di rispondere a interrogativi riguardanti l’universo, a dimostrazione di quanto le domande «cosmologiche» siano universali, innate nella mente umana.
Per gli antichi egizi la dea del cielo stellato era Nut, solitamente raffigurata come una donna con il corpo punteggiato di stelle e inarcata sul fratello e marito Geb, la Terra.
Il mito racconta che i due erano inizialmente uniti, fino a che Shu, dio dell’aria, non li allontanò,separando così il cielo dalla Terra. Nut aveva il compito di inghiottire Ra, il Sole, al tramonto, e di partorirlo poi all’alba. Lo stesso doveva fare con le stelle. Nut rimaneva inarcata sopra a Geb di giorno, ma si univa a lui di notte, originando l’oscurità. Secondo la cosmogonia di Annu (Heliopolis), Shu e Geb erano stati generati da Shu e Tenefet, a loro volta vomitati da Atum, il dio creatore emerso dalle acque primordiali. Non molto diversa era anche la cosmologia dei sumeri. Tutte le cosmologie antiche sono lontanissime dalla cosmologia intesa come scienza. La trasformazione in vera scienza è iniziata con la civiltà greca e si è evoluta di pari passo con lo sviluppo dei metodi matematici e degli strumenti di misura quantitativi, fino ad arrivare alla cosmologia attuale, una scienza basata su osservazioni e misure rigorose, spiegate dalle leggi della fisica più moderna.
Circa venticinque secoli fa Anassimandro di Mileto introdusse il principio dell’apeiron (letteralmente «senza perimetro»): l’illimitato, la mescolanza originaria eterna e infinita di tutte le cose, ma anche l’indefinito. L’apeiron non era uno dei quattro elementi di cui si pensava fosse fatto il mondo (terra, acqua, aria, fuoco), bensì il principio da cui gli elementi sarebbero derivati: «un’altra natura infinita, dalla quale provengono tutti i cieli e i mondi che in essi esistono».
Secondo Aristotele, «l’infinito non ha principio ma sembra esso stesso essere principio di ogni cosa e ogni cosa abbracciare e governare». L’infinito esiste perché sono infiniti il tempo, le grandezze matematiche «e tutto quello che c’è oltre i cieli; ma siccome quel che c’è oltre i cieli è infinito, sembra che vi debba essere un corpo infinito e dei mondi infiniti». Ecco dunque una prima concezione dell’universo che ha origine dall’infinito e che (forse) è infinitamente esteso.
Leucippo e Democrito, fondatori della teoria atomistica, avevano nel frattempo già riempito l’universo infinito con un’infinità di atomi.
Quindi, composizione, estensione e anche origine dell’universo erano discusse nell’antica Grecia con i metodi della filosofia. A partire da Eudosso di Knidos (circa 380 a.C.), passando per lo stesso Aristotele e poi con Tolomeo e il suo Almagesto (circa 150 a.C.), e in tutto il Medioevo, fino alla rivoluzione copernicana, la struttura del cosmo poneva la Terra al centro, circondata dalle sfere celesti il cui moto trascinava gli astri. L’ultima sfera, quella delle stelle, era opaca e bucata solo in corrispondenza delle stelle, e precludeva quindi la visione dell’infinito, o della luce, o di Dio. Evocativi a tale proposito sono i versi dello Zodiacus Vitae di Marcello Palingenio (circa 1530 d.C.), nel quale viene descritto che ciò si trova al di là delle stelle: «Lucem, quam nostri Solis longe minor est lux / Lucem quam terreni oculi non cernere possum» («Luce, rispetto alla quale quella del nostro Sole è debolissima, Luce, che gli occhi umani non possono distinguere»). Questa intuizione di un universo dominato da una luce intensissima è suggestivamente vicina alla concezione odierna del Big Bang caldo. La storia iniziale dell’universo è davvero dominata dalla radiazione elettromagnetica, che oggi è ancora presente, ma di lunghezza d’onda troppo lunga per i nostri occhi.
Arriviamo alla seconda metà del XVI secolo, a Giordano Bruno e al suo De l’infinito universo et mondi, per il quale il cosmo è infinitamente esteso e riempito ovunque uniformemente di stelle. Non esiste un centro, non essendovi confini, e quindi tutte le posizioni sono equivalenti. Bruno recepisce la rivoluzione di Copernico e addirittura la supera. La Terra e il Sole si trovano in posizioni qualsiasi del cosmo. E se il cosmo è così omogeneo, allora ovunque valgono le stesse leggi fisiche. Una visione sorprendentemente moderna dell’universo e delle leggi che lo regolano che gli costò il rogo in Campo dei Fiori, a Roma, nel 1600.

Fin qui la cosmologia, il cui interesse è innato nell’uomo, percorre prima le strade del mito e poi quelle del ragionamento filosofico.

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