mercoledì 7 agosto 2013

Sul pianeta Amazon i libri non occupano il posto d'onore

All'indomani del clamoroso acquisto del "Washington Post" da parte di Jeff Bezos, proponiamo un reportage dedicato a Amazon e uscito su "Alfabeta2" (maggio 2012).
Anche se Amazon.it è nata ufficialmente il 23 novembre 2010, non ha ancora una vera sede ed è da Parigi che il «country manager» Martin Angioni, passato alle dipendenze di Jeff Bezos dopo essere stato amministratore delegato di Electa Mondadori, dirige le operazioni. A settembre 2011, però, è stato inaugurato in provincia di Piacenza il primo centro di distribuzione Amazon in Italia, il sessantesimo nel mondo. Chi dunque vuol capire da vicino come funziona nel nostro paese quella che ci ostiniamo a definire la più grande libreria online del pianeta – una definizione riduttiva, come vedremo – deve prendere la A21, uscire dal casello di Castel San Giovanni e approdare, percorse poche centinaia di metri, al locale «parco logistico» (parco per modo di dire: trecentomila metri quadri di magazzini per aziende di ogni tipo).
L’impresa naturalmente va concordata in modo da essere dotati di tutti i lasciapassare necessari – e anche così, per penetrare nel capannone di Amazon occorre spogliarsi di ogni bene: niente borse e borsette, nessun alimento, foss’anche un pacchetto di caramelle, e non parliamo poi di sigarette e accendini; quanto al cellulare, per i cocciuti che non se ne vogliono separare, deve essere registrato, con puntigliosa annotazione del numero seriale. Elencati i diktat, la sorridente guardiana con i capelli rossi mi invita a firmare un foglio dove prometto di non divulgare nessuna delle informazioni che apprenderò nel corso della visita: richiesta bizzarra per chi è venuto proprio in cerca di informazioni, ma lei si stringe nelle spalle, «certo ci sono casi particolari, ma così vuole il regolamento». E dunque firmo, sperando che non mi tocchi poi affrontare gli avvocati del gigante di Seattle.

Ancora non basta. Chiunque entri, intruso o interno, deve indossare un giubbetto fluorescente e passare attraverso un varco simil-aeroportuale, che tintinna per ogni fibbia metallica. Stefano Perego, general manager per la logistica che mi accompagna lungo il percorso, si sottopone al rito con una certa soddisfatta solennità, quasi a sottolineare che almeno qui, in Amazonia, la legge non fa eccezioni. E l’impressione si conferma appena siamo dentro, perché la prima cosa che Perego mostra orgogliosamente, proprio all’inizio dell’itinerario, sono due spazi ricavati all’interno dell’enorme hangar e delimitati da pareti di cartone (tutto qui è molto «eco», all’insegna del risparmio e del riuso): sono, spiega il manager, la safety school e la standard process school, dove si insegnano le norme di sicurezza e le procedure di lavoro, e ogni persona trovi impiego qui è tenuta a seguire il corso, si tratti di un associate, quello che in ambienti meno anglofoni chiameremmo magazziniere, o di un manager. «Non si possono prendere decisioni se non si conoscono tutti i meccanismi dall’interno», afferma il responsabile della logistica, che fino all’approdo alla società di Seattle non aveva mai lavorato con i libri ma che ci tiene a far sapere di essere un grande lettore («Sono quasi sicuro che i miei stipendi finora non hanno ancora coperto quello che ho speso su Amazon negli anni passati»).
Sull’importanza dell’organizzazione insiste Perego mentre finalmente percorriamo i «sentieri» pedonali, camminamenti segnati a terra in blu e studiati in modo da non incrociare mai il tragitto dei veicoli che trasportano le merci. Di questo il manager è evidentemente fiero, ci tornerà più volte nel corso della conversazione, sottolineando che si tratta di una scelta coraggiosa, dato che allunga sia pur di poco i tempi di quella cronometrica «catena di montaggio» che è l’evasione di un ordine, da quando la richiesta del cliente si traduce in una serie di cifre sugli schermi dei computer di qui fino al momento in cui il prodotto, perfettamente e ecologicamente impacchettato, è pronto a lasciare il magazzino: «Abbiamo un tasso di incidenti bassissimo e del resto i punti di forza di Amazon sono la sicurezza e l’efficienza, non i prezzi bassi».
Per stretta politica aziendale non vengono forniti dati sull’andamento di Amazon.it, ma Perego lascia intendere che l’aumento del fatturato è stato esponenziale: «All’apertura del magazzino lavorava qui una trentina di persone, ora siamo 190 e credo che per la fine dell’anno la cifra sarà ben più alta». E la legge Levi, che ha imposto un tetto del 15 per cento agli sconti per i libri, non ha avuto nessun effetto? «L’hanno chiamata legge anti-Amazon, ma i nostri clienti ci scelgono, perché sanno che – a parità di prezzo – avranno un servizio impeccabile». Qualche giorno dopo, in una conversazione telefonica, Martin Angioni darà una versione lievemente diversa: «Una limitazione sugli sconti vuol dire farci correre con le mani legate dietro la schiena, ma corriamo ugualmente – come corriamo in paesi, la Francia o la Germania, dove il tetto è ancora più basso».
Il fatto è che i libri, scontati o no, sono per Amazon meno importanti di quanto si tenda a credere, come scopro cammin facendo, mentre Perego saluta per nome tutti gli associates che incontriamo lungo il percorso (sottotesto a uso dell’osservatore esterno, o forse no: «siamo una grande famiglia», o meglio, «un grande team») e senza dar nell’occhio raccatta da terra ogni pezzetto di carta colpevole di lordare questa «Ferrari della distribuzione» (la definizione è sua). Certo sono milioni i volumi disposti sulle scaffalature (in tutto ventun chilometri, tre chilometri per sette ripiani) ma, saranno gli spazi giganteschi o i giubbotti da addetti alla manutenzione stradale che tutti indossiamo, la sensazione di trovarsi in un luogo che contiene buona parte del sapere umano proprio non si ha. E soprattutto a colpire è l’enorme quantità di merci «non libri» di cui dispone il magazzino di Castel San Giovanni – non soltanto i prodotti che da anni ci siamo abituati a vedere nelle «librerie» di catena (dvd, videogiochi, elettronica), ma di tutto: giocattoli e aspirapolvere, scarpe e cesoie da giardinaggio, caffettiere e racchette da tennis. Mi rendo conto, passando davanti alle scatole di Lego o ai secchi di plastica, di quanto la mia «personale», algoritmica home page di Amazon.it, tutta tarata su acquisti di libri (ebbene sì) avesse condizionato la mia percezione dell’azienda. Al telefono Angioni, entusiasta per avere da poco comprato online a prezzi competitivi un tagliaerba e un calciobalilla, citerà un dato interessante, che vale per Amazon.it ma dovrebbe rispecchiare grossomodo anche i dati globali: i media (di cui i libri rappresentano comunque la fetta più cospicua) coprono il 43 per cento del fatturato, e poi c’è tutto il resto, che in altre aree – la Germania o gli Stati Uniti – include anche gli alimentari e che, a differenza dei libri, può essere venduto con grossi sconti.
Ma ha senso allora promuovere l’immagine di Amazon come libreria in un paese come l’Italia dove si legge così poco? Sì, risponde Perego, perché questo è il nostro core business e perché il libro è un prodotto «facile» (da proporre, richiedere, imballare, spedire) e quindi adatto per una fase iniziale. Sì, risponde Angioni, perché il cliente dal libro passerà poi a comprare altro. Per il momento, però, chi compra da Amazon.it sembrerebbe, a dispetto di tutto, il solito lettore «fortissimo», quello su cui pesano le sorti dell’editoria italiana. Lo dimostrerebbe, per lo meno, un altro dato fornito da Angioni: il 90 per cento del fatturato (stiamo qui parlando solo del segmento libri) viene da titoli che sulla stessa Amazon.it vendono meno di venti copie – non i bestselleroni, insomma, ma i testi di nicchia che non si trovano nelle librerie di catena. Ammesso che cifre simili valgano per il mercato americano, si spiegherebbero meglio le scelte di Amazon quando ha cominciato a farsi editore («decisione logica: se Mondadori o Feltrinelli o Gems coprono tutta la filiera, perché scandalizzarsi che Amazon pubblichi?», commenta Angioni, specificando che oggi come oggi non ci sono piani simili per l’Italia). Sette le sigle varate finora, e tutte con una identità definita, dal gotico urbano di 47North al rosa di Montlake Romance fino alla intellettuale Crossing, dove si trovano testi tradotti da altre lingue – merce rara nell’autoreferenziale mercato statunitense – come Sete del russo Gelasimov o Il re di Kahel del guineano Monénembo, tutti reperibili in paperback o in versione Kindle.
Già, il Kindle. A Castel San Giovanni quasi non se ne parla, ovviamente, circondati come siamo dalla prepotenza fisica della merce. Ne parla invece Angioni con toni ispirati, come di una rivoluzione in corso sotto i nostri occhi. Non tanto l’e-reader in sé, quanto la possibilità di accedere ai testi a prezzi sempre più bassi, sempre più bassi, sempre più bassi. Si infiamma, lo sento che ravana dall’altra parte del filo e finalmente se ne esce con una citazione, il Michelet del Popolo, citato a sua volta da Braudel: «L’industria tessile era allo stremo, soffocava. Le botteghe scoppiavano: nessuno smercio. Il fabbricante atterrito non osava né lavorare, né sospendere il lavoro con quelle macchine divoratrici... I prezzi calavano, inutilmente; nuovi ribassi, finché il cotone cadde a sei soldi... A questo punto accade una cosa inaspettata: questa parola “sei soldi” provocò il risveglio. Milioni di acquirenti, povera gente che non comprava mai, si misero in moto. Si vide allora quale immenso e potente consumatore è il popolo, quando interviene».
Inutile provare a spiegargli che l’acquisto di un libro dovrebbe essere seguito poi dalla sua lettura, pratica un po’ più complessa e meno diffusa rispetto a quella di indossare un abito. Angioni è già altrove, in un mondo dove i libri vengono comprati e divorati a miliardi, e non solo Amazon ma tutti, editori e librai, carta e digitale, traggono vantaggio, perché – frase che sento dire per la prima volta da Perego ma che, scoprirò poi, è una sorta di motto aziendale – «quando la marea sale, tutte le barche salgono».
Ecco cosa si sogna, a volte, in casa Amazon.

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