sabato 21 settembre 2013

Bianco è il colore del terrore / 2

J. Whistler - Sinfonia in bianco #3 (1865)


Il bianco torna insistente in Robert W. Chambers, nei suoi racconti ancora sconosciuti in Italia, L’ombra bianca o L’isola del dolore, o nel più celebre Il segno giallo (1895) in cui possiamo contemplare un candido, vermiforme, repellente guardiano cimiteriale; e ancora in Matthew P. Shiel, nel capolavoro catastrofico La nube purpurea (1901), o nel sottovalutato La nave fantasma, di Oliver Onions: qui un battello maledetto, quello dell’Olandese Volante, ha le note stimmate ominose del non-colore:

I suoi occhi trovavano solo bianco: il bianco della vecchiezza estrema. In un punto il bianco luccicava come grani di sale; in un altro era grigio e gessoso, e in un altro ancora aveva la sfumatura gessosa della decadenza ... Dovunque c'era il lieve, inquietante biancore delle sostanze da cui la vita se ne andava. I cordami erano sbiancati come sbianca la paglia vecchia, e metà delle cime mantenevano la forma quanto la mantiene la cenere di uno spago dopo che il fuoco si è spento. Le pallide ordinate erano bianche e pulite come ossa trovate fra la sabbia. E perfino l'incenso con il quale ... la nave era stata impeciata si era seccato ed era diventato una pallida sostanza gommosa che scintillava come quarzo ..."


Nel raffinato Il popolo bianco, di Arthur Machen (1899 circa), le creature “bianco panna”, testimoniate dal diario di un’adolescente, sono entità maligne, celate all’occhio profano, variamente appellate lungo il corso della storia umana: folletti, driadi, fate, streghe. Solo gli iniziati alla magia possono accostarsi ad esse senza perdere il senno (o la vita, come nel caso della protagonista).
In H. G. Wells, nel classico L’uomo invisibile (1897), lo scienziato che ha scoperto il siero portentoso, Griffin, è albino: “ ... aveva capelli e sopracciglia bianchi - non grigi per l'età, ma bianchi come quelli degli albini e gli occhi rossi come rubini …”; un novello Dracula, insomma, incolore, indefinito, sfuggente al dominio dei sensi e opposto alla moralità corrente, in tal caso quella di una cittadina della provincia inglese; lo straniero arriva ovviamente“… in una giornata d’inverno … durante l’ultima nevicata dell’anno, fra un turbinio di neve e folate di vento gelido”.


Il disagio del bianco spettrale, e il senso di desolazione che esso incute, torna ne I salici, di Algernon Blackwood (1907). Due amici discendono il Danubio in canoa; sono costretti dalla forza del fiume a pernottare presso un precario isolotto di sabbia sferzato dai venti e folto di innumerevoli salici, alberi argentei che, coi loro incessanti sussurri, sembrano annunciare la discesa di esseri alieni:

[I salici] si piegano e fremono ai venti, mostrando al sole le loro foglie argentee ... perché il vento fa nascere onde che si sollevano ... onde di foglie … verdi come quelle del mare, quando i rami si voltano e si sollevano, e poi di un bianco argenteo quando le pagine inferiori delle foglie guardano il sole … Nella moltitudine dei salici avvertivo qualcosa di diverso ... si ridestava in me un senso di reverenza ... ma una reverenza che sfumava quasi in un vago terrore … stavano lì, al chiaro di luna, come un immenso esercito che circondasse il nostro accampamento, scuotendo innumerevoli lance argentee in atto di sfida, prima dell'attacco ... I salici erano contro di noi

Il racconto è uno dei vertici del sovrannaturale inglese.
Stiamo approssimandoci alla soluzione dell'enigma; caleremo i nostri assi: un brano, fondamentale, del Moby Dick di Melville (1851) e alcuni stralci dei due opposti cantori dell'imperialismo inglese, Rudyard Kipling e Joseph Conrad.
Ecco Melville:

E forse perché essa [la bianchezza], per la sua indefinitezza, adombra il nulla insensibile e l'immensità dell'universo, e così ci pugnala alla schiena con il pensiero dell'annichilimento quando contempliamo le bianche profondità della Via Lattea?
O è perché, come la bianchezza assoluta non è tanto colore, quanto l'assenza visibile di colore, e nello stesso tempo la base di tutti i colori, è per queste ragioni, forse, che vi è un tale muto pallore, pieno di significato, in un vasto paesaggio nevoso, un ateismo incolore di tutti i colori, da cui noi indietreggiamo? E quando consideriamo quell'altra teoria dei filosofi naturalisti, secondo cui tutti gli altri colori della terra ... non sono che sottili inganni ... così che tutta la Natura deificata in realtà si imbelletta come la prostituta, le cui attrattive non fanno che celare la carogna sottostante; e quando consideriamo come ... il grande principio della luce rimanga per sempre bianco e senza colore in sé stesso ... Meditando tutto questo, l'universo paralizzato giace davanti a noi come un lebbroso ... così [che] il disgraziato miscredente fissa, fino ad accecarsi, il bianco monumentale sudario che avvolge ogni prospettiva intorno a noi
"

Ed ecco Kipling, in Un fatto realmente accaduto (1892); viene descritta una creatura degli abissi:

Sospeso in aria come la luna piena, pendeva una specie di viso che ... non poteva essere appartenuto a questa terra e noto all'uomo ... aveva fitte rughe di pelle bianca agli angoli delle labbra aperte, i tentacoli bianchi pendevano dalla guancia inferiore ... Ma l'orrore di quel muso stava negli occhi, bianchi nelle cavità come ossa raschiate, e ciechi ... la testa calva! Senza crini, cieca e sdentata ... Ecco lo scintillare di un ventre bianco ...

Ancora Kipling ne Il marchio della bestia (1890). Qui un lebbroso indiano getta una maledizione su uno dei protagonisti, che aveva profanato goliardicamente la statua del dio Hanuman:

Quand'ecco, all'improvviso, da una nicchia dietro l'immagine del dio, salta fuori un uomo d'argento ... il suo corpo luccicava come argento levigato, perché era quello che la Bibbia chiama ‘un lebbroso bianco come la neve"


Infine ecco il passo di Cuore di tenebra (1899): qui Marlowe, il narratore, rievoca i propri sogni di ragazzo che fantastica sulle parti inesplorate del globo (tra cui il Polo Nord) segnate in bianco sulla cartina:

Quando ero bambino avevo una passione per le carte geografiche. Stavo ore a guardare il Sud America, l'Africa o l'Australia, e mi perdevo nelle glorie dell'esplorazione. Allora c'erano parecchi spazi vuoti sulla terra, e quando ne trovavo uno che sembrava particolarmente invitante sulla carta ... ci mettevo il dito sopra e dicevo: "Quando sarò grande andrò là". Ricordo che il Polo Nord era uno di questi posti .... Ce n'era uno - il più grande, il più vuoto [the most blank] - che volevo vedere a tutti i costi ... una macchia bianca che un bambino può riempire di sogni di gloria ...

Il bianco, nelle quattro citazioni, è sempre associato, con la consueta ambiguità che oscilla romanticamente fra attrazione e repulsione, allo sconosciuto, all'inesplorato, all'indefinito.
In Melville, l’autore più profondo, il bianco consiste nella realtà che giace uniforme al di là dei nostri deboli sensi; il colore (i vividi azzurri o l’arancio acceso) sono inganni orditi dalla Natura per rendere la vita degna di essere vissuta, ma il vero, celato agli occhi, è nient'altro che uno spettrale  e candido manto (ecco le metafore del lebbroso, propria di Kipling, e del sudario e della prostituta, presenti in Stoker).

In Kipling tale minacciosa cosa in sé, che sfugge al nostro imperio classificatorio, diviene metafora psicologica (il mostro abissale, l’inconscio et cetera) e politico-religiosa (l'insondabile civiltà indiana impossibile da comprendere - e dominare - per le categorie empiriche inglesi).
Conrad esplicita ulteriormente tale atteggiamento: il bianco della carta geografica attrae e ripugna; per esorcizzarne il fascino e la paura é necessario conquistarlo, definirlo, colmarlo di città, stazioni, avamposti del progresso. Per questo Marlowe, disgustato da tale brama di conquista, al tempo stesso subisce il fascino di Kurtz, il conquistatore occidentale, calvo e bianchissimo come un idolo, quasi intagliato in quell’avorio che accumula insensatamente nel cuore inesplorato dell'Africa.


I terrori della letteratura esaminata corrono paralleli alla storia dell'Inghilterra in quanto storia imperiale. Un impero, per dominare, ha bisogno di definizioni, nettezze, equazioni, cataloghi, archivi, misurazioni antropologiche. Il suo nemico è l'indifferenziato. E il bianco, colore indifferenziato par excellence, assurge a categoria dello spirito da rifiutare (ciò che non si può classificare e imbrigliare può impossessarsi di te: lo spirito di conquista esige strateghi, scienziati e matematici, non mistici, metafisici, sognatori).

Berkeley, Hume, Locke, Occam e gli empiristi inglesi prepararono la filosofia dell'impero vittoriano; un istinto che, nel Novecento, verrà sviluppato rigogliosamente (senza la resistenza di particolari retroterra culturali) nella colonia britannica più psicopatica, gli Stati Uniti.

Borges ritrova le testimonianze di tale filosofia esaminando le critiche, di autori angloamericani, all'ode di John Keats, L'usignolo (1819). Nella composizione il poeta paragona il canto melodioso dell'uccello, simbolo della bellezza eterna e perenne, alla propria meschina condizione di mortale:


“Non sei mica nato per morire, tu, uccello immortale:
Generazioni di affamati non ti calpestano,
E la tua voce, che ascolta in questa notte fuggente,
Fu ascoltata già da re e da villani:
Forse è lo stesso canto che il sentiero trovò
Del cuore di Ruth, quando malata di nostalgia
Pianse in mezzo ai campi stranieri;
Lo stesso, forse, che tante volte ha affascinato
Magiche finestre aperte sulle schiume
Di mari pericolosi in incantate terre deserte”

Per noi europei del Sud  l'interpretazione è facile. L'usignolo è l'usignolo in genere, il concetto di usignolo, l'usignolo platonico. I critici inglesi, invece, scorsero in quella strofa una spiacevole incongruenza: l'usignolo che Keats ascoltò (nel proprio giardino, forse in una sera del 1819), essi affermano, non può essere quello biblico; il poeta deve necessariamente riferirsi, per non incorrere in errore, alla specie zoologica dell'usignolo oppure a una driade, divinità equivalente ed effettivamente immortale. In altre parole gli inglesi, aristotelici e nominalisti, non riescono ad astrarre l'animale sino all'universale, ma son costretti, da quel potente impulso, a continuamente definirlo e specificarlo: il concetto, per essi, si risolve negli individui. Chiosa Borges:

"Il reale, per quella mente inglese, non sono i concetti astratti, ma gli individui; non l'usignuolo generico, ma l'usignuolo concreto ... L'inglese rifiuta il generico perché sente che l'individuale è irriducibile ... Uno scrupolo ... gli impedisce di operare con astrazioni, come i tedeschi"

Per l’istinto britannico, insomma, il concetto non ha realtà propria, ma esclusivo rilievo pratico. Solo l'individuale possiede dignità. Un atteggiamento che, esplicitato dalla filosofia di Locke, Hume e Hobbes, favorì la rivoluzione industriale, la scienza sperimentale, la prassi spietata delle guerre coloniali, il progresso del costume, l'organizzazione sociale capitalista, la libertà individuale di fronte allo Stato.
Il bianco, colore senza colore, luce delle visioni mistiche, e segno dell'universale, dell'indefinito e dell'eternità, divenne, perciò, simbolo perturbante di un horror vacui epocale; per questo la cultura letteraria inglese dell’Ottocento travestì di bianco tutto ciò che era ad essa straniero: terre sconosciute, donne fatali, ciechi mostri delle profondità, entità sovrannaturali, noumeni, orrori interstellari; non riuscendo però ad abolirne il fascino segreto, quello di una mai cessata nostalgia d'esso.

Consigli di lettura

- Alberto Castoldi, Bianco, La Nuova Italia, 1998
- Mary Shelley, Frankenstein, in La notte di Villa Diodati, Nova Delphi, 2011
- Samuel Taylor Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, Rizzoli, 1973 (traduzione di Mario Luzi)
- Edgar Allan Poe, Le avventure di Arthur Gordon Pym, Mondadori (varie edizioni, traduzione di Elio Vittorini)
- Edgar Allan Poe, Berenice, in Racconti, Feltrinelli, 1970
- Bram Stoker, Dracula, Mondadori, 1979
- Bram Stoker, La vergine del sudario, Castelvecchi, 2010
- Bram Stoker, La tana del verme bianco, Fanucci, 1994
- Howard Phillips Lovecraft, Tutti i racconti, 4 voll., Mondadori, 1989-1992
- Oliver Onions, La nave fantasma, in Storie di fantasmi, Newton Compton, 1995
- Arthur Machen, Il popolo bianco, in H. P. Lovecraft, I miei orrori preferiti, Newton Compton, 1994
- Algernon Blackwood, I salici, in H. P. Lovecraft, I miei orrori preferiti, Newton Compton, 1994
- Matthew Phipps Shiel, La nube purpurea, Adelphi, 1981
- Robert W. Chambers, Il segno giallo, in Il re in giallo, Fanucci, 1975
- Robert W. Chambers, L'ombra bianca/L'isola del dolore, in Il mistero della scelta, Hypnos, 2011
- Herbert George Wells, L'uomo invisibile, Rizzoli, 1960
- Rudyard Kipling, Un fatto realmente accaduto, in Aa. Vv., Confini e conflitti, Theoria, 1992
- Rudyard Kipling, Il marchio della bestia, in Racconti del mistero e dell'orrore, Bompiani, 1990
- Joseph Conrad, Cuore di tenebra, Einaudi, 1974
- Herman Melville, Moby Dick, Frassinelli, 1942 (traduzione di Cesare Pavese)
- John Keats, Iperione, Odi e sonetti, Sansoni, 1984
- Jorge Luis Borges, L'usignuolo di Keats, in Altre inquisizioni, Feltrinelli, 1986

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