domenica 15 settembre 2013

Racconti d'autunno. Ritratto di maestra


Bianca Maria Vaglio
Si dice spesso che la vita è come il teatro o che il teatro è come la vita. Si dice spesso che Napoli è un palcoscenico e che i suoi abitanti sono tutti attori. A Napoli molta gente che conosco ripete spesso: “ Passare una giornata con la mia famiglia.. è proprio come stare a teatro!”
La famiglia in cui sono cresciuta io, non era di quel tipo.
Erano tutte persone riservate e poco inclini a mostrare i loro sentimenti. A volte penso che sono cresciuta nell’unica famiglia di Napoli in cui non sembrava per niente di stare a teatro.
Tuttavia c’era un luogo dove ogni giorno, dai sei fino a dieci anni, mi è capitato di assistere a uno straordinario spettacolo. Il teatro era la mia classe delle elementari e il mio banco era il mio posto in platea. La prima attrice era senza dubbio la nostra insegnante, la signorina Ada Scrocco.
Si dice spesso che i napoletani hanno il teatro nel sangue. Tuttavia lo spettacolo che la signorina Scrocco rappresentava, pur essendo recitato in dialetto napoletano, non aveva niente di Scarpetta, Di Giacomo o Totò. Era piuttosto qualcosa di mezzo fra il teatro dell’assurdo di Ionesco e il teatro della crudeltà di Artaud. Non credo che la signorina Scrocco conoscesse questi autori, ma a loro sarebbe sicuramente piaciuta.

Ricordo ancora perfettamente la prima volta che vidi la mia insegnante che d’ora in poi chiamerò “la Scrocco” come l’abbiamo sempre chiamata.
Io e mia madre bussammo alla porta di quella che l’anno seguente sarebbe stata la mia classe . Una bambina con il grembiule nero ed un vistoso fiocco ci venne ad aprire. La Scrocco rimase seduta alla cattedra mentre ci avvicinavamo, io, leggermente intimorita. Era una donna magra, anzi ossuta, con capelli nerissimi, occhi neri mobilissimi, la bocca segnata da rughe dipinta con un rossetto rosso vermiglio, le mani con le unghie rosse ricoperte di vene sporgenti. Da lei emanava un profumo eccessivo. Fece un cenno a una bambina con le treccine che si trovava in castigo, faccia al muro, dietro la lavagna e la mandò a posto. Non so se mia madre l’abbia notata, ma io ne fui colpita. Provai un moto di simpatia.
Mi sentivo anche leggermente in colpa perché avevo i sandaletti e un vestitino leggero, faceva caldo e io ero stata tutta la mattina a giocare in Villa comunale, mentre quelle bambine con i loro grembiuli neri sembravano accaldate e stanche.
Mia madre cominciò a discorrere con la maestra. Parlavano di me ma non era previsto che io dicessi niente. Mia madre infatti mi teneva per mano e quando voleva che io parlassi bastava che mi facesse una pressione più forte sul palmo; per il resto io sapevo che avrei dovuto tacere. Rimasi perciò zitta, facendo al massimo dei cenni e lasciando che lei, come al solito, rispondesse al mio posto quasi fosse lo spettacolo di un ventriloquo. Ricordo anche che ad un certo punto, la Scrocco si rivolse alle bambine in nero e fiocco che mi guardavano compunte e chiese. “La volete questa bella bambina per compagna l’anno venturo?” Naturalmente risposero in coro di sì e dopo poco prendemmo congedo.

Questa fu la mia ammissione in quella scuola. Non si trattava di una scuola privata ma di una normalissima scuola pubblica. Io non avevo potuto frequentare la prima per legge perché, non avendo ancora compiuto sei anni, ero troppo piccola, quindi a sei anni in punto venni iscritta direttamente in seconda elementare. Il motivo di quella visita alla Scrocco mi è rimasto misterioso. Quello che però so, è che il rapporto fra famiglie e insegnanti negli anni Cinquanta, era molto diverso da com’è oggi. Oggi le famiglie tendono a proteggere i figlioletti e a protestare contro le insegnanti per qualsiasi, presunta o microscopica, ingiustizia subita. Allora invece l’insegnante era un’autorità, le famiglie non si sognavano di mettere in discussione i metodi educativi scolastici e alla fine dell’anno facevano alle maestre dei ricchi regali per ingraziarsele. Tutte le mamme delle alunne più benestanti si riunivano e regalavano una volta un frigorifero, un’altra il televisore (che aveva appena fatto la sua comparsa nelle case della borghesia italiana) oppure un oggetto d’oro. In classe di mio fratello, c’erano quaranta bambini quasi tutti di famiglie più che benestanti. L’insegnante incedeva carica di tanti di quei gioielli regalati dalle famiglie degli alunni, che pareva una Madonna in processione.
La Scrocco aveva fama di insegnante severa ma molto brava. Nessuno però conosceva le sue arti di teatrante. Nessuno sapeva che quella donna, che chissà per quale motivo aveva scelto di fare la maestra elementare, non provava il più vago senso di maternità e non era capace di nessuna tenerezza verso i bambini. Anzi ho l’impressione che lei ci considerasse delle adulte, ci parlasse come se fossimo delle sue pari.
Guardo la foto di classe della IV elementare. Ricordo tutte le mie compagne per nome ma di molte ricordo anche il soprannome che la Scrocco le aveva affibbiato.
Ecco quella che veniva chiamata “Musso ‘e vecchia” (muso di vecchia) perchè le labbra sottili la facevano sembrare una vecchietta, quest’altra detta “Musso ‘e puorco” (muso di porco) per le sue labbra grosse, “Musso ‘e coniglio” questa con i denti sporgenti, “Mucella morta” (gattina morta) questa creatura pallida e spaurita, e “Patana scaurata” (patata scaldata) questa con il viso un po’ largo e schiacciato. Ecco “Pulicenella spaventato d’è maruzze”( una bambina con l’aria perennemente spaventata), “A streghella”( una bambina spettinata) e infine una che veniva soprannominata “Verme” per la sua magrezza , il viso a triangolo e la carnagione giallastra. E infine questa bambina che si assentava spesso dalla scuola a causa di malattie, e che era soprannominata“ A ciuccia ‘e Fichella” ( l’asina di Fichella) un animale proverbiale a Napoli “perché aveva sette piaghe e a coda fracita ( marcita)!” così malridotto che non si sapeva come facesse a sopravvivere.

Io avevo come soprannome “A signorina d’’o parapetto” (la signorina al balcone) per il fatto che mia madre anche a scuola mi mandava sempre vestita come per una festa. Scarpette di vernice, calzine lunghe, grembiulino vezzoso, colletti inamidati, fiocchetti in velluto e gros grain! Del mio soprannome, per altro meritato, io non mi lamentavo, non so però se mi sarei mai abituata ad essere chiamata tutti i giorni Verme o Musso ‘e puorco. Ma all’epoca non ci facevo caso, era tutto parte dello spettacolo.
La cosa più emozionante per me erano i suoi scatti d’ira che si verificavano quasi quotidianamente e che aspettavo con ansia, come a teatro si aspetta la scena madre. La Scrocco era incapace di indulgenza e amava dare sfogo teatralmente alla sua collera. Eppure io non ricordo di cosa fossero colpevoli quelle bambine su cui si scagliava. Un errore di ortografia? Una macchia sul quaderno, gli orli del foglio un po’sgualciti? Bastava davvero poco. Il suo sguardo si incendiava d’odio.
Quello che l’attirava erano i capelli. Io li avevo fortunatamente corti e ricciuti ma quelle con le trecce, le code di cavallo, erano le vittime preferite. C’era la più piccola di statura della classe che aveva delle sottili e lunghissime treccine bionde. La maestra la sollevava da terra di dieci, venti centimetri, tenendola solo per le trecce. Ricordo gli occhietti azzurri imploranti, la smorfia di dolore di quella poverina che tuttavia non piangeva e stringeva i denti. Era una bambina di famiglia nobile, i Santacroce. Forse anche per il suo nome, quando la vedevo in quella posizione, mi venivano in mente le Sante che subivano stoicamente la tortura. A quelle invece che avevano la coda di cavallo o due codini separati con la fila al centro, dava degli strattoni come a volerglieli strappare dalla testa.
Ricordo una bambina a cui tirò così forte il lobo dell’orecchio che le si staccò e, con nostro sgomento uscì del sangue; fu l’unica volta che una mamma venne a protestare. Ma lei disse che la figlia era una “bugiarda” che lei non l’aveva toccata e la madre evidentemente accettò la spiegazione che la bambina si era tirata l’orecchio da sola.
Da quel momento la Scrocco la prese di mira e pur non osando più toccarla fisicamente le diceva sempre che era una “bugiarda” e una volta tentò di svergognarla davanti a noi compagne dicendo che la madre le “pittava “(le tingeva) i capelli , cosa palesemente falsa che la fece scoppiare a piangere.

Quando la maestra correggeva i compiti fatti a casa, bisognava mettersi in fila vicino alla cattedra con i quaderni e mostrarglieli; mi ricordo che spesso strappava in due i quaderni, quelli con la copertina nera, urlando “ puortancelle o’sapunare” (per chi non è napoletano, portalo a quello che raccoglie la roba vecchia) e così dicendo lo buttava in aria verso il soffitto: qualche volta faceva volare il quaderno anche fuori dalla finestra. Oppure ci colpiva in testa con forza usando la punta della penna con cui correggeva gli errori (quella penna rossa tanto cara alla maestrina di De Amicis). Immaginate cosa voleva dire stare in fila ad aspettare il proprio turno e mostrarle il quaderno dopo che è appena accaduta una cosa del genere alla tua compagna, che se ne sta tornando al suo posto tenendosi la mano in testa per il dolore.
Molte bambine non reggevano alla paura. Io ricordo che ogni tanto qualcuna si sentiva male, si faceva la pipì addosso o vomitava.
Quando ciò accadeva lei per un po’ si calmava, chiamava la bidella che maternamente confortava la malcapitata e la faceva uscire dall’aula. Noi riprendevano la lezione in silenzio. Non volava una mosca. Non commentavamo neanche fra di noi quello che succedeva in classe. Forse eravamo tutte segretamente affascinate da quella donna.
Devo dire tuttavia a suo onore che non faceva favoritismi, picchiava con uguale intensità quelle di famiglia benestante, le cui mamme le facevano ricchi regali a fine anno, come quelle a cui nell’intervallo portavano la “refezione gratuita”, cioè dei panini con il formaggio arancione, e questo voleva dire che erano povere. Per lei contava solo se eri brava a scuola o no. Io ho evitato molte botte perché scrivevo bene e soprattutto per fortuna capivo a volo i problemi di matematica.

Per molto tempo nella mia infanzia, ho giocato con le bambole di carta, era il mio gioco preferito. Giocavo quasi sempre alla scuola. Mettevo le mie bambole in fila per due e facevo la conta. Quella che usciva al tocco la picchiavo forte in testa. Tutte le mie bambole avevano il collo staccato e riattaccato varie volte con lo scotch. Mia madre non si spiegava il perché di quel gioco inquietante finchè non gliel’ho raccontato da grande. Ma ormai la Scrocco era acqua passata e non so se mia madre mi abbia creduto davvero.
Ma la cosa più incredibile era la sua mancanza totale di sensibilità e anche di quello che oggi chiameremmo un atteggiamento “politically correct”.
C’era per esempio fra noi una bambina ebrea. Quando noi ci alzavamo in piedi per dire a voce alta la preghiera, lei si alzava ma rimaneva zitta con le labbra serrate. Un giorno una bambina domandò alla maestra “Perché Serena non prega come noi?” la maestra rispose stizzita: “Perché è ebrea e gli ebrei pensano che Gesù deve ancora scendere sulla terra…” A questo punto si fece una risata e rivolta alla scolaretta ebrea le disse : “E aspettate ..aspettate! Ma ch’ aspettate affà?” Io benchè piccina rimasi agghiacciata per quell’insulto alla religione della mia amichetta. Avrei voluto abbracciarla, confortarla perché le vidi gli occhi pieni di lacrime ma non osai farlo.
Una volta arrivai in classe piangendo perché mia madre era in ospedale, si doveva operare. Io non sarei voluta andare a scuola; mia zia tuttavia mi ci portò di forza. La Scrocco, avvertita di questo fatto, pensò bene di mettermi in un banchetto accanto alla cattedra da sola, come un’appestata; in questo modo per tutta quella triste mattinata non potetti scambiare una parola e neanche avere il conforto della vicinanza fisica delle mie compagne. Una sadica?
Certamente io non nego che alcuni insegnamenti impartiti con questi metodi possano essere efficaci. Ad esempio, ad una bambina che in un tema aveva scritto che il compleanno della madre “rincorreva” il mese di marzo, la Scrocco impose di mettersi a correre fra i banchi. Lei la inseguiva urlando : “Tu sei il mese di marzo e io sono il compleanno di tua madre”. Corsero per un po’ fra lo sgomento generale perché non capivamo cosa volesse farle una volta che l’avesse acchiappata. Ma ad un certo punto lei si fermò e disse. “Questo vuol dire rincorrere, il compleannno invece “ricorre” hai capito? RICORRE senza la N” Non me lo sono mai più dimenticato.
Ricordo anche un’altra scenetta.. Stavamo facendo il dettato. Una bambina interruppe la Scrocco per dirle che le era finito l’inchiostro nel calamaio. La maestra, senza neanche alzare la testa, le rispose: “E salutame ‘o guardaporta” (traduzione dal napoletano: chi se ne frega) e continuò il dettato. Dopo un attimo alzò la testa e vide che la bambina stava uscendo dall’aula. “Dove stai andando?“ ruggì e quella “Sto andando a salutare il guardaporta” avendo interpretato la frase alla lettera e credendo forse nella sua ingenuità che il custode le avrebbe procurato dell’inchiostro per il suo calamaio. La Scrocco rimase un attimo immobile e tutte noi trattenemmo il fiato; ma doveva essere di buon umore quel giorno perché, con un lampo di ironia negli occhi, le disse solo di non fare l’idiota e di tornarsene al suo posto..
Grazie signorina Scrocco.
Grazie per tutto quello che mi hai insegnato e che la mia famiglia non avrebbe mai potuto farmi comprendere in modo così efficace. Che il mondo è un posto crudele dove puoi essere preso in giro per i tuoi difetti fisici o per la tua religione. Che bisogna saper resistere alla paura e alle aggressioni se no, peggio per te. Che nessuno è disposto a crederti se una persona più autorevole dice che ti sei inventato una cosa. Che a tutto ci si abitua e dopo un po’ ti sembra normale. Che non bisogna essere solidali o pietosi, è una perdita di tempo. Stai attento piuttosto che non capiti a te. Che la sfortuna, (come diceva non ricordo chi) è una colpa. Che è meglio imparare tutto ciò da piccoli. E infine che il napoletano è una lingua molto teatrale, le sue espressioni sono efficacissime e i suoi insulti impareggiabili. Si dice spesso che i napoletani hanno il teatro nel sangue. Si dice spesso che Napoli è un palcoscenico e che i suoi abitanti sono tutti attori. Si dice spesso che la vita è come il teatro o che il teatro è come la vita. Credo proprio di sì. 

Bianca Maria Vaglio ha curato la sceneggiatura di numerosi film e serie tv. Tra i suoi script più popolari: Rossella, Amiche davvero! e Doppio segreto. Per le edizioni Rizzoli First è da poco uscita sotto la sigla Private Room una sua serie di racconti, scaricabili da Internet.

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