domenica 8 dicembre 2013

L'incipit della domenica, Il mondo come volontà e rappresentazione

Il mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille und Vorstellung) esce nel 1819. Il libro è considerato, giustamente, il trattato di filosofia alla base della modernità. Ed è sicuramente così; Il mondo, tuttavia, possiede qualità letterarie spiccate e può leggersi anche come romanzo della conoscenza - un romanzo con venature gotiche e gialle.
C’è un persecutore, la Volontà, unica, incombente, indivisibile, onnipotente, celata agli sguardi quotidiani; e ci sono le vittime, noi, agiti da Essa, mai soddisfatti, sfiancati, infelici, prigionieri dell’esperienza mondana, molteplice e ingannevole, e dei limiti avvilenti della gabbia spazio-temporale; e c’è persino una catarsi, la liberazione finale, affidata dapprima all’arte (nella sua gerarchia, architettura, tragedia, musica), poi alla rinuncia: la voluntas depotenziata, alfine, come noluntas, ovvero il Nirvana, la quiete, la pace; una sensazione che allarga il cuore come quando Van Helsing affonda il paletto di frassino nel cuore di Dracula, fredda entità che si nutre del sangue degli ignari viventi.


Non mancano tocchi new age: il velo di Maia, l’India, il buddismo, gli scritti sanscriti. 

Cosa aspettate, dunque? Orsù, deponete Philip Dick, Il nome della rosa, Nietzsche, Thomas Mann, Kafka, Hesse, Coelho, Bruce Sterling, Leopardi e leggete Schopenhauer.
Che era pure un bel tipastro. Crapulone, satiresco, irriverente, maschilista: un irresistibile carognone a tutto tondo. Ecco un episodio raccontato da Bertrand Russell:


"Una volta lo annoiava una cucitrice di una certa età che stava chiacchierando con una amica fuori della porta del suo appartamento. Egli la gettò giù dalle scale, causandole lesioni permanenti. Ella ottenne una sentenza che lo costringeva a pagarle una certa somma (15 talleri) ogni trimestre finché viveva. Quando alfine ella morì, dopo 20 anni, Schopenhauer annotò nel suo libro dei conti: ‘Obit anus, abit onus’ (Morta la vecchia, estinto il debito)”.
"Obit anus, abit onus": perfetto; Schopenhauer, tra gli altri meriti, ha pure quello di aver portato l’aforisma a livello d’arte assoluto. Qualche esempio:

“Sarebbe bene comprare libri, se insieme si potesse comprare il tempo per leggerli, ma di solito si scambia l'acquisto di libri per l'acquisizione del loro contenuto”

“Gli amici si dicono sinceri, i nemici lo sono: per cui bisognerebbe utilizzare il loro biasimo per la conoscenza di se stessi, come una medicina amara”;

“Ogni miserabile babbeo, che non abbia al mondo nulla di cui poter essere orgoglioso, si appiglia all'ultima risorsa per esserlo, cioè alla nazione cui appartiene: in tal modo egli si rinfranca ed è ora pieno di gratitudine e pronto a difendere con le unghie e con i denti tutti i difetti e tutte le stoltezze caratteristiche di quella nazione”

"Clio, la musa della storia, è tutta quanta infetta di menzogne, come una prostituta di sifilide

“Tutti i giornalisti sono, per via del mestiere che fanno, degli allarmisti: è il loro modo di rendersi interessanti. Essi somigliano in ciò a dei botoli che, appena sentono un rumore, si mettono ad abbaiare forte. Bisogna perciò badare ai loro squilli d'allarme solo quel tanto che non guasti la digestione”

“Sposarsi significa fare il possibile per venirsi a nausea l'uno all'altro”

Maupassant, anima affine e suo lettore assiduo, gli dedicò un racconto sospeso fra grottesco e sberleffo, Accanto a un  morto. Lo lesse Corrado Augias, anni fa - anni che sembrano secoli - su Rai 3, quando l’Italia dava ancora la sensazione di esistere.


Arthur Schopenhauer
Il mondo è mia rappresentazione”: - questa è una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, sebbene l'uomo soltanto sia capace d'accoglierla nella riflessa, astratta coscienza: e s'egli veramente fa questo, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofica. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch'egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra; che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso. Se mai una verità può venire enunciata a priori è appunto questa: essendo l'espressione di quella forma d'ogni possibile e immaginabile esperienza, la quale è più universale che tutte le altre forme, più che tempo, spazio e causalità; poi che tutte queste presuppongono appunto quella, E se ciascuna di tali forme, che noi abbiamo tutte riconosciute come altrettante determinazioni particolari del principio della ragione, ha valore solo per una speciale classe di rappresentazioni, la divisione in oggetto e soggetto è invece forma comune di tutte quelle classi: è la forma unica in cui qualsivoglia rappresentazione, di qualsiasi specie, astratta o intuitiva, pura o empirica, è possibile ed immaginabile. Nessuna verità è adunque più certa, più indipendente da ogni altra, nessuna ha minor bisogno d’esser provata, di questa: che tutto ciò che esiste per la cono-scenza, - adunque questo mondo intero, - è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola, rappresentazione. Naturalmente questo vale, come per il presente, così per qualsiasi passato e qualsiasi futuro, per ciò che è lontanissimo come per ciò che è vicino: imperocché vale finanche per il tempo e lo spazio, dentro i quali tutto viene distinto. Tutto quanto è compreso e può esser compreso nel mondo, deve inevitabilmente aver per condizione il soggetto, ed esiste solo per il soggetto. Il mondo è rappresentazione.
Questa verità è tutt'altro che nuova. Ella era già nella concezione degli scettici, donde mosse Cartesio. Ma Berkeley fu il primo ad esprimerla risolutamente, e si acquistò così un merito immortale verso la filosofia, quantunque il resto delle sue dottrine non possa reggere. Il primo errore di Kant fu la negligenza di questo principio, come verrà esposto nell'appendice. Quanto remotamente invece tal fondamentale verità fosse riconosciuta dai saggi indiani, apparendo come base della filosofia Vedanta attribuita a Vyasa, ci attesta W. Jones, nell'ultima sua memoria, Sulla filosofia degli Asiatici, ‘Asiatic Researches’, vol. IV, p. 164: “Il dogma fondamentale della scuola Vedanta non consisteva nel negare l'esistenza della materia, cioè della solidità, impenetrabilità ed estensione (ciò che sarebbe stolto negare), bensì nel correggere il concetto volgare di quella: affermando che la materia non ha un'esistenza indipendente dalla percezione mentale, che esistenza e percettibilità sono termini a vicenda convertibili” . Queste parole esprimono sufficientemente la coesistenza della realtà empirica con l'idealità trascendentale,
Dunque solo dal punto di vista indicato, solo in quanto è rappresentazione, noi consideriamo il mondo in questo primo libro. Che nondimeno questa considerazione, malgrado la sua verità, sia unilaterale, e quindi ottenuta mediante un'astrazione arbitraria, è fatto palese a ciascuno dall'intima riluttanza ch’ei prova a concepire il mondo soltanto come sua pura rappresentazione; al quale concetto d'altra parte non può mai e poi mai sottrarsi. Ma l'unilateralità di questa considerazione verrà integrata nel libro seguente con un'altra verità, la quale non è di certo così immediata come quella da cui qui muoviamo; bensì tale che vi si può esser condotti solo da più profonda indagine, più difficile astrazione, separazione del diverso e riunione dell'identico - una verità che deve apparire molto grave e per ognuno, se non proprio paurosa, almeno meritevole di riflessione: ossia questa, che egli appunto può dire e deve dire: «il mondo è la mia volontà».

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