giovedì 7 agosto 2014

Il racconto del giovedì - Roald Dahl, La scommessa

Roald Dahl
Erano ormai quasi le sei, così pensai d'offrirmi una birra e d'andare a stendermi su una delle sdraio ai bordi della piscina a godermi l'ultimo sole del pomeriggio.
Andai al bar, presi la birra, la portai via e attraversai il giardino diretto verso la piscina.
Era un bel giardino, con prati e aiuole di azalee e alte palme di cocco. Tra le cime di queste il vento soffiava for­te facendo frusciare e crepitare le foglie come se brucias­sero. Vedevo i grossi grappoli scuri di noci di cocco appe­si sotto quelle foglie.
Intorno alla piscina c'era un'infinità di sdraio insieme con tavolini bianchi e ombrelloni variopinti, sotto i quali erano sdraiati uomini e donne abbronzati e in costume da bagno. In acqua, nella piscina, c'erano tre-quattro ragazze e circa una dozzina di giovanotti, tutti a sguazzare e a far chiasso. Giocavano con una grossa palla di gomma.
Sostai un attimo a guardarli. Le ragazze erano inglesi, clienti dell'albergo, i giovanotti mi sembravano invece americani. Probabilmente erano cadetti di marina, dove­vano essere sbarcati dalla nave scuola americana che era arrivata in porto quella mattina.
Mi diressi verso un ombrellone giallo e presi posto su una di quattro sdraio libere. Mi versai la birra, quindi mi stesi in tutta comodità e accesi una sigaretta.
Fu davvero molto piacevole quella sosta lì all'ombra, con birra e sigaretta. E piacevole era lo spettacolo di quei giovani che sguazzavano nell'acqua verde della piscina.
Quei giovanotti americani andavano proprio d'accordo con le inglesine: erano arrivati ora al punto in cui si tuffa­vano sott'acqua e le tiravan giù per le gambe.
A un tratto scorsi un ometto anziano che avanzava a passo svelto lungo il bordo della piscina. Indossava un abito d'un bianco immacolato e camminava a passetti ra­pidi, saltellando un tantino e sollevandosi sulla punta dei piedi a ogni passo. In testa portava un panama color pan­na e procedeva a balzelloni lungo il bordo della piscina, gettando intanto occhiate alla gente sdraiata sulle sedie.
Mi si fermò davanti e sorrise, mostrando due file di denti piccoli e irregolari, leggermente anneriti. Sorrisi an­ch'io.
«Kiedo skusa, posso sedere qui?»
«Certamente», risposi. «Prego.»

Girò saltellando intorno alla sedia e l'esaminò, come per controllarla, dopodiché prese posto, incrociando le gambe. Le scarpe di camoscio bianco erano tutte buche­rellate per dare aria ai piedi.
«Bella serata», osservò. «Tutte kosì le serate, qui in Giamaica.» Non riuscivo a distinguere il suo accento: ita­liano o spagnolo? Tutto sommato, conclusi che si trattasse d'un sudamericano. Vecchio, per giunta, ora che lo vede­vo da vicino. Probabilmente un sessantotto-settanta anni.
«Sì», risposi. «È proprio magnifico qui.»
«E, se m'è konsentito, ki sono quelli lì? Non è gente dell'albergo.» Indicò i giovani in piscina.
«Credo che siano marinai americani. O meglio, ameri­cani avviati alla carriera di marina.»
«Certo, sono proprio americani. Ki altro al mondo fa­rebbe tanto kiasso. Lei non è americano, vero?»
«No, non sono americano.»
D'un tratto, ci vedemmo davanti uno dei cadetti ameri­cani, Grondava acqua e aveva accanto una delle inglesine.
«Sono occupate queste sedie?» chiese.
«No», risposi io.
«Le spiace se seggo?»
«Prego.»
«Grazie.» Aveva in mano un telo di spugna e, una vol­ta seduto, lo srotolò e ne trasse fuori un pacchetto di siga­rette e un accendino. Offrì una sigaretta alla ragazza, che rifiutò; quindi l'offrì a me, che accettai. L'ometto disse: «No, la ringrazio, preferisco il sigaro». Tirò fuori un por­tasigari di coccodrillo e ne sfilò uno, quindi tirò ancora fuori un temperino con una forbicetta tra le lame e tranciò l'estremità del sigaro.
«Vuole accendere?» Il giovanotto americano stava porgendo l'accendino.
«Kon questo vento quello non funziona.»
«Certo che funziona. Funziona sempre.»
L'ometto si tolse di bocca il sigaro spento, piegò la testa di lato e guardò il giovanotto.
«Seem-pre?»
«Non sbaglia un colpo. In mano a me, almeno.»
Sempre con la testa piegata di lato, l'ometto continuava a guardare il giovanotto. «Bene, bene. Kosì lei dice ke questo famoso accendisigari non sbaglia un kolpo, è que­sto ke dice?»
«Certo», fece il giovanotto. «Proprio così.» Doveva avere un diciannove-vent'anni, con un viso lungo e lentig­ginoso e un naso a becco abbastanza aguzzo. Il torace non era abbronzato e aveva lentiggini anche lì insieme con qualche sparso ciuffetto di peli rossicci. Stringeva l'accen­dino nella destra, pronto ad agire sulla rotellina. «Non sbaglia un colpo», ripeté, sorridendo, ora, perché stava vantandosi di proposito. «Le assicuro che non viene mai meno.»
«Un momeento, per piacere.» La mano che stringeva il sigaro si levò in alto, col palmo in fuori, come per fer­mare il traffico. «Un momeento solo, per piacere.» Parla­va a bassa voce, l'ometto, una voce atona, senza staccare gli occhi di dosso al giovanotto.
«Vogliamo, per piacere, fare una skommessetta?» Sor­rise al giovanotto. «Non vogliamo fare una skommessetta se l'accendisigari accende?»
«Certo, scommettiamo pure», rispose il giovanotto. «Perché no?»
«Le va di skommettere?»
«Certo, è il mio pane quotidiano.»
L'ometto tacque. Studiava il proprio sigaro, e devo dire che quel suo modo di comportarsi non mi andava molto. Dava l'idea che volesse cavar qualcosa da tutto questo; al tempo stesso, avevo l'impressione che gongolasse, covan­dosi un suo piccolo segreto.
Guardò di nuovo il giovanotto e disse, spiccicando le parole: «Anke a me piace skommettere. Perké non faccia­mo una bella skommessetta su questo accendisigari? Una bella skommessa? Grossa?»
«Un momento», fece il giovanotto. «Grossa non pos­so permettermela. Però posso scommettere un quarto di dollaro. Anzi, addirittura un dollaro. Alcuni scellini al cambio, immagino.»
L'ometto sollevò di nuovo la mano. «Mi stia a sentire. Questo può essere divertente. Facciamo una skommessa. Poi andiamo su nella mia stanza, qui in albergo, dove non c'è vento, e io skommetto che lei non accende dieci volte di seguito questo suo famoso accendisigari senza sbagliare un solo colpo.»
«E io scommetto di sì, invece», rispose il giovanotto.
«Benissimo. Perfetto. Skommettiamo allora, sì?»
«Certo. Scommetto un dollaro.»
«No, no. Io le propongo una bella skommessa davvero. Sa, io sono riko e anke sportivo. Stia a sentire. Là fuori, davanti all'albergo, c'è la mia auto. Davvero una bella makina. Americana, del suo paese. Kadillak...»
«Ehi, un momento. Aspetti un momento.» Il giovanot­to s'allungò nella sdraio ridendo. «Io non sono all'altezza d'una cosa del genere. Questa è follia.»
«No, niente follia. Lei accende dieci volte di seguito il suo accendisigari e la Kadillak è sua. Le piace una Kadil­lak, no?»
«Certo che mi piacerebbe una Cadillac.» I! ragazzo era tutto un sorriso.
«Benissimo, allora. Magnifico. Facciamo la skommessa e ci metto la mia Kadillak.»
«E io cosa ci metto?»
L'ometto sfilò con cura la fascetta rossa del sigaro an­cora spento. «Amiko mio, io certo non le kiedo di skom­mettere quello che non può permettersi. Kapisce?»
«E allora cosa?»
«Le vengo incontro, sì?»
«Okay. Mi venga incontro.»
«Una kosetta che lei può permettersi di dar via, e nel kaso perde non ci rimette molto. D'akordo?»
«Cosa, per esempio?»
«Per esempio, il mignolino della sua mano sinistra.»
«Il cosa?» Il giovanotto smise di sorridere.
«Sì. Perké no? Lei vince, prende la makina. Lei perde, io prendo il dito?»
«Non afferro. Che vuol dire: prende il dito?»
«Lo tronko.»
«Numi santissimi! Questa non è una scommessa, que­sta è una follia! No, ci sto solo per un dollaro.»
L'ometto s'allungò nella sdraio, ora, allargò le braccia, con le mani a palmo in su, e scrollò le spalle, in un gesto un tantino sprezzante. «Bene, bene, bene», disse poi. «Io non kapisko. Lei dice ke accende ma non vuole skommettere. Allora lasciamo andare, perdere, sì?»
Il giovanotto rimase immobile a guardare gli altri in pi­scina. Poi, di colpo, si ricordò che ancora non s'era accesa la sigaretta. Se la cacciò tra le labbra, mise le mani a cop­pa intorno all'accendino e fece scattare la rotellina. Lo stoppino prese immediatamente fuoco e si levò una fiam­mella gialla che, per come lui teneva le mani, non vacillò al vento.
«Posso accendere anch'io?» dissi allora.
«Dio, mi scusi, mi sono dimenticato di lei.»
Allungai la mano per prendere l'accendino, ma lui s'al­zò e me lo porse acceso.
«Grazie», dissi. E lui tornò a sedere.
«Si trova bene qui?» chiesi.
«Benissimo», rispose lui. «È un bel posto, no?»
Seguì un lungo silenzio, durante il quale mi resi conto che l'ometto aveva scosso il ragazzo con quella sua assurda proposta. Se ne stava seduto lì immobile, ed era evidente che dentro gli si stava accumulando una certa tensione. A un tratto prese ad agitarsi sulla sedia a sdraio e a strofinar­si il petto prima e il collo poi; alla fine piazzò ambedue le mani sulle ginocchia e prese a tamburellare con le dita sul­le rotule. Subito dopo cominciò a battere anche il piede a terra.
«Vediamo un po'», disse alla fine. «Lei dice che salia­mo su in camera sua e se io riesco ad accendere quest'affa­re dieci volte di seguito vinco una Cadillac. Perde un solo colpo e io ci rimetto il mignolo della sinistra. È così?»
«Esatto. La skommessa è kosì. Però penso ke lei abbia paura.»
«E se perdo come facciamo? Le tendo il mignolo e lei me lo mozza?»
«Oh, no! Kosì non va affatto. Lei potrebbe essere ten­tato di non porgerlo affatto. No, noi facciamo kosì: prima di kominciare le lego una delle mani sul tavolo e io sto lì pronto col coltello a tronkare il dito appena l'accendisigari fallisce un colpo.»
«Di che anno è la sua Cadillac?» chiese il giovanotto.
«Skusi, non capisco.»
«Di che anno... è vecchia la sua Cadillac?»
«Ah! Vekia? L'anno? Sì, l'anno scorso. Quasi nuova. Ma io kredo di kapire che lei non skommette. Gli ameri­cani mai lo fanno.»
Il giovanotto esitò ancora un attimo, poi guardò prima la ragazza quindi me. «Ci sto», disse di colpo. «Scom­metto il mignolo.»
«Benissimo!» L'ometto batté le mani, una volta sola, senza agitarsi. «Magnifico», esclamò. «Facciamo subito. E lei, signore», si rivolse a me, «vuole essere tanto gentile da fare, kome si dice, da arbitro?» Aveva due occhi palli­di, quasi incolori, con due pupille piccole ma d'un nero acceso.
«Be'», esclamai. «Io la trovo una scommessa folle. Non mi va giù.»
«Neppure a me», disse l'inglesina. Apriva bocca per la prima volta. «La trovo una scommessa sciocca, ridicola.»
«Ma lei davvero intende tagliargli il mignolo se per­de?» chiesi.
«Certo che taglio. Kome intendo dargli la Kadillak se vince. Andiamo, su. Andiamo nella mia stanza.» S'alzò. «Vuole per kaso indossare prima qualkosa?» chiese poi.
«No», rispose il giovanotto. «Vengo così.» Poi si girò verso di me. «Lo considererei un grande favore se lei ve­nisse con noi a fare da arbitro.»
«Va bene», risposi. «Verrò. Ma la scommessa conti­nua a non andarmi giù.»
«Vieni anche tu», disse poi lui, rivolto alla ragazza. «Vieni come spettatrice.»
L'ometto fece strada attraverso il giardino fino all'alber­go. Era chiaramente eccitato, e questo lo faceva cammina­re ancor più come un pinguino.
«Sto nell'annexe», spiegò. «Vuole vedere prima la makina? È qua fuori.»
Ci guidò fino al punto in cui potevamo vedere il viale d'accesso dell'albergo. Si fermò e indicò una lucente Ca­dillac verde pallido parcheggiata lì davanti.
«Ekola. La verde. Le piace?»
«Ehi, è una bella macchina», esclamò il giovanotto.
«Benissimo. Ora andiamo a vedere se riesce a vincer­la.»
Lo seguimmo fino alla dépendance e quindi su per una rampa di scale.
Aprì la porta e tutti entrammo in una bella e grande stanza a due letti, ai piedi di uno dei quali era stesa una vestaglia da donna.
«Prima», disse lui, «beviamo un piccolo martini.»
Le bottiglie erano su un tavolinetto nell'angolo della stanza, insieme con uno shaker, del ghiaccio e parecchi bicchieri. S'accinse a preparare i martini dopo avere però suonato il campanello. Bussarono infatti alla porta ed en­trò una cameriera di colore.
«Ah», esclamò lui, mettendo giù la bottiglia del gin per tirar fuori il portafoglio dalla tasca e prendere una banconota da una sterlina. «Vuole per kortesia farmi un piacere?» Porse la sterlina alla cameriera.
«Prenda», disse. «Ora noi qui dentro dobbiamo fare un gioketto e io vorrei che lei mi trovi due, no tre kose. Voglio dei kiodi, un martello e un koltello, un trinciante che può farsi dare in kucina. Kiaro, sì?»
«Un trinciante?» Con gli occhi spalancati, la cameriera si portò le mani davanti incrociando le dita. «Lei intende dire un coltello per tagliare la carne? Un vero trinciante?»
«Sì, sì, certo, naturalmente. Avanti, su, prego. Lei me le può trovare certamente le tre kose.»
«Bene, signore, proverò. Certo, gliele trovo. Vado a prenderle.» E uscì dalla stanza.
L'ometto distribuì i martini. Eravamo lì, col martini in mano, lo sorseggiavamo, il giovanotto con quel suo viso lungo e lentigginoso e il naso appuntito, nudo, a parte le mutandine da bagno d'un marrone scolorito; l'inglesina, una ragazza ben piantata e bionda, con un costume da ba­gno azzurro, che guardava il giovanotto mentre sorseggia­va il suo martini; l'ometto con quegli occhi incolori e tutto vestito di bianco che anche lui sorseggiava il suo martini senza staccare gli occhi di dosso alla ragazza in costume azzurro. Non mi ci raccapezzavo. Quel vecchio sembrava fare sul serio, lui e la sua scommessa, sembrava veramente intenzionato a tagliare quel mignolo. Ma che diavolo? E se davvero il giovanotto avesse perso? Avremmo dovuto por­tarlo di corsa all'ospedale nella Cadillac che non aveva vinto? Una gran bella cosa davvero. Una gran bella stupi­data, altroché.
«Non la trova piuttosto stupida come scommessa?» chiesi al giovanotto.
«La trovo una bella scommessa», rispose lui. Aveva già buttato giù un martini abbondante.
«Io invece la trovo ridicola, oltre che stupida», inter­venne la ragazza. «E se perdi?»
«Non importa. Ora che ci penso, non ricordo di aver mai adoperato in vita mia il mignolo della sinistra. Eccolo qua.» Il giovanotto strinse il mignolo tra le dita della de­stra. «È sempre stato qui e non ha mai fatto niente per me. Perché non dovrei scommetterlo? No, la trovo una bella scommessa.»
L'ometto sorrise, prese lo shaker e ci riempì di nuovo i bicchieri.
«Prima di cominciare», disse poi, «konsegno al... al­l'arbitro la kiave della makina.» Tirò fuori dalla tasca la chiave e me la consegnò. «Le karte», aggiunse, «i dokumenti di cirkolazione e assicurazione sono nella taska del­lo sportello.»
La cameriera di colore ritornò. In una mano aveva un piccolo trinciante, del tipo usato dai macellai per trinciare gli ossi, e nell'altra aveva un martello e un sacchetto di chiodi.
«Bene. Ha trovato tutto. Grazie, grazie. Ora può anda­re.» L'ometto aspettò che la cameriera si chiudesse la por­ta alle spalle dopodiché poggiò gli strumenti su uno dei letti e disse ancora: «Ora ci prepariamo noi, sì?» E, rivol­to al giovanotto: «Mi aiuti, per kortesia, kon questo tavo­lo. Lo spostiamo un poko».
Si trattava del solito scrittoio da albergo, un semplice tavolino rettangolare d'un metro e mezzo per uno, col sot­tomano con la carta assorbente, il calamaio, le penne e la carta intestata. Lo spostarono dalla parete al centro della stanza e lo sgomberarono.
«E ora», disse l'ometto, «una sedia.» Prese una sedia e la piazzò davanti al tavolo. Era vispo nei suoi movimenti, come se stesse organizzando dei giochi a una festa di bam­bini. «E ora i kiodi.» Prese i chiodi e cominciò a piantarli sul piano del tavolo.
Il giovanotto, l'inglesina e io stavamo lì, con i martini in mano, a guardarlo inchiodare. Piantò due chiodi nel tavo­lo a una decina di centimetri l'uno dall'altro. Non li piantò sino in fondo, li lasciò un po' sporgenti. Poi ne provò la solidità.
Si direbbe proprio che questo figlio di buona donna l'ha già fatto altre volte, mi dissi. Non aveva un attimo d'e­sitazione. Tavolo, chiodi, martello, trinciante: sa esatta­mente quello che occorre e come disporlo.
«E ora», disse, «ci okorre della kordella.» Trovò la cordella. «Benissimo, finalmente siamo pronti. Vuole per kortesia sedere qui al tavolo?» chiese al giovanotto.
Questi mise giù il bicchiere e sedette.
«Ora metta la mano sinistra tra questi due kiodi. I kiodi servono solo per legarle la mano e tenerla ferma. Benis­simo, kosì. Ora le lego la mano, l'assikuro al tavolo... kosì.»
Avvolse la cordella intorno al polso del giovanotto poi ancora, varie volte, intorno al palmo della mano, quindi la legò ai chiodi. Strinse forte. Fece un buon lavoro e quan­do ebbe finito il giovanotto non aveva nessuna possibilità di ritrarre la mano. Poteva però muovere le dita.
«Ora per kortesia stringa il pugno. Kon il mignolo in fuori, però. Deve tendere il mignolo, poggiarlo sul tavolo. Per-fetto! Per-fetto! Ora siamo pronti. Kon la mano destra adopera l'accendisigari. Un momento, però, per korte­sia.»
Saltellò fino al letto e prese il trinciante. Tornò al tavolo e si piantò lì, pronto, col coltello in mano.
«Siamo pronti?» disse. «Signor arbitro, dika lei quan­do si komincia.»
L'inglesina stava dietro la sedia del giovanotto, in quel suo costume da bagno azzurro. Stava lì senza aprir bocca. Dal canto suo, il giovanotto sedeva immobile, con l'accen­dino nella destra e gli occhi fissi sul trinciante. L'ometto guardava invece me.
«È pronto?» chiesi al giovanotto.
«Sono pronto.»
«E lei?» All'ometto.
«Prontissimo», rispose, e levò in aria la lama. La tenne lì, a un mezzo metro sopra al dito del giovanotto, pronto a mozzare. Il giovanotto la teneva d'occhio ma senza batter ciglio e senza aprir bocca. Si limitò a sollevare le sopracci­glia e ad aggrottare la fronte.
«Bene», dissi. «Proceda.»
Ora il giovanotto disse: «Per cortesia, vuole contare ad alta voce ogni colpo?»
«Certo», risposi. «Li conterò.»
Sollevò il pollice sopra la rotellina e, con uno scatto, la fece girare. La scintilla partì dalla pietrina e lo stoppino prese fuoco. Si levò una fiammella gialla.
«Uno!» contai io.
Non soffiò sulla fiamma, abbassò il coperchio dell'ac­cendino e aspettò un cinque secondi prima di risollevarlo.
Un altro scatto, molto deciso, e ancora una volta dallo stoppino si levò la fiammella.
«Due!»
Nessuno disse niente. Il giovanotto teneva gli occhi fissi sull'accendino ora e l'ometto brandiva il trinciante. Anche lui guardava l'accendino.
«Tre!»
«Quattro!»
«Cinque!»
«Sei!»
«Sette!» Era chiaramente uno di quegli accendini che funzionano. Dalla pietrina partiva una grossa scintilla e lo stoppino era della lunghezza giusta. Vedevo quel pollice scattare abbassando poi il coperchio dell'accendino, ogni volta, sulla fiamma. Seguiva una pausa. Poi il pollice ria­priva l'accendino. Era un lavoro esclusivamente da pollice. Faceva tutto il pollice. Presi fiato, pronto a dire otto. Il pollice scattò, la pietrina scintillò, la fiammella comparve.
«Otto!» dissi. Mentre lo dicevo la porta della stanza s'aprì. Ci voltammo tutti e vedemmo una donna in piedi sulla soglia, piccolina, nera di capelli, alquanto anziana: ri­mase ferma qualche secondo, dopodiché si precipitò den­tro gridando: «Carlos! Carlos!»
Gli afferrò il polso, gli tolse il coltello di mano, lo gettò sul letto, quindi prese l'ometto per i baveri della giacca bianca e cominciò a scuoterlo energicamente, parlando in­tanto, svelta e ad alta voce, in tono severo, in una lingua che doveva essere spagnolo. Lo scuoteva così forte che quasi non lo si vedeva più: divenne un'ombra vaga, sfoca­ta, una sagoma in rapido movimento, confusa, come i rag­gi d'una ruota che gira.
Poi, a poco a poco, rallentò e riacquistò i suoi tratti. La donna lo trascinò attraverso la stanza e lo spinse a sedere su uno dei letti. Rimase seduto lì, sul bordo, battendo le palpebre e toccandosi la testa come per vedere se ancora era lì.
«Mi dispiace», disse la donna, «mi dispiace davvero molto di quanto è accaduto.» Parlava un inglese quasi perfetto.
«È proprio una brutta cosa», proseguì. «Immagino però che sia colpa mia. Basta che lo lasci solo dieci minuti per andare dal parrucchiere e quando torno vedo che ha ricominciato. Non perde tempo.» Aveva l'aria dispiaciuta e insieme davvero preoccupata.
Il giovanotto intanto si stava slegando la mano. La ra­gazza stava dietro di lui senza dir niente.
«È una minaccia», disse la donna. «Lì da noi, a casa, ha tagliato quarantasette dita a quarantasette persone di­verse, e ha perso undici macchine. Alla fine hanno minac­ciato di rinchiuderlo da qualche parte. Per questo l'ho portato qui.»
«Facevamo solo una pikola skommessa», borbottò l'o­metto seduto sul letto.
«Immagino che hai scommesso una macchina», disse la donna.
«Sì», rispose il giovanotto. «Una Cadillac.»
«Non ha nessuna macchina. Quella è mia. Il che peg­giora le cose: scommette non avendo niente da perdere. Mi vergogno per lui e chiedo davvero scusa.» Aveva un'a­ria davvero simpatica.
«Bene», diss'io, «ecco la chiave della sua macchina.» La misi sul tavolo.
«Stavamo facendo solo una pikola skommessa», bron­tolò di nuovo l'ometto.
«Non gli è rimasto più niente», riprese la donna. «Non ha niente al mondo. Niente. Per la verità, da un pezzo gli ho vinto tutto io. C'è voluto tempo, molto tem­po, ed è stata dura, ma alla fine gli ho vinto tutto.» Guar­dò il giovanotto e gli sorrise, un sorriso triste; poi gli si av­vicinò e allungò una mano per prendere la chiave.
E così gliela vidi quella mano, e ancora l'ho davanti agli occhi: le era rimasto un solo dito, a parte il pollice.

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