giovedì 15 gennaio 2015

Uomini che odiano i cani


No, a Wolfgang Goethe i cani non piacevano proprio.
Nella diciassettesima elegia romana egli afferma di tollerare solo l’abbaiare che annuncia la venuta dell’amata; altri latrati non possono che ferire crudamente i timpani del Vate:

Noia mi dan parecchi rumori; ma sopra ogni altro
Odio il latrar dei cani: lacerami gli orecchi.
Solo un cane sovente io odo con gioia latrare,
E questo è il cane che s'allevò il vicino.
Esso a la mia fanciulla un giorno abbaiava, quand'ella
Venìa furtiva, e quasi n'era il mister tradito.
Ora, appena l'ascolto, mi dico pur sempre: ella viene?
O ripenso quel tempo, che l'Attesa venìa.

Nel settantreesimo epigramma veneziano il tono si fa più conciso e definitivo:

Davvero non mi meraviglia che gli uomini amino i cani,
Un briccone miserabile è infatti, come l'uomo, il cane.

(Wundern kann es mich nicht, daß Menschen die Hunde so lieben;
Denn ein erbärmlicher Schuft ist, wie der Mensch, so der Hund)

Nel Faust, invece, il cane (un can barbone incontrato per caso) diviene il cavallo di Troia di Mefistofele:

Non guaire, barbone! Alle sante armonie
che ora mi prendono l’anima
non s’accorda il tuo ringhio di bestia.
Siamo avvezzi a sentire che gli uomini deridono
quello che non intendono
e di fronte a bellezza e bontà
infastiditi,spesso brontolano. Ringhiare
a quelle vuole, come loro, il cane?
….
Se devo spartire la stanza con te,
smetti di mugolare,
caro cane, smetti di latrare.
Compagnia tanto fastidiosa
Non la riesco a sopportare.
Uno di noi due
Se ne deve andare.
Mi spiace mancare ai doveri dell’ospite.
La porta è aperta,il passo è libero….
Ma che mi tocca di vedere?
Può capitare una simile cosa
In natura? E’ illusione? E’ realtà?
Come si fa grande e grosso!
S’alza di prepotenza,
non ha più nulla che paia di un cane…
Che spettro mi sono portato qua dentro!
Sembra già un ippopotamo. Ha occhi
di fuoco, ha zanne spaventose.

E un cane, piuttosto prevedibilmente, divenne uno dei motivi delle dimissioni dal teatro di Weimar, dopo venticinque anni di gestione:

"A quel tempo un celebre commediante di nome Karsten si era esibito in tutta la Germania in una commedia intitolata Il cane di Aubry. Il protagonista della pièce era un barbone ammaestrato che era diventato assai famoso anche personalmente. Quando i proprietari del teatro di Weimar decisero di ospitare la commedia, Goethe andò su tutte le furie. Diede  le dimissioni per l’affronto.
Per spiegare la propria posizione scrisse un’irata poesia ad un amico, il drammaturgo e storico Johann Schiller :

Il palcoscenico non è un canile
O un luogo per un botolo.
Il barbone fa il suo ingresso,
Il poeta la sua uscita:
Un artista non s’inchina a un cane” (1)

Chissà quale shock infantile presiedette a tale idiosincrasia, oggi incomprensibile.
Carlo Emilio Gadda era altro famigerato cinofobo (in realtà odiava tutti gli animali, portatori di sozzura e disordine, con l’eccezione del cavallo – del cavallo, però, disciplinato nelle parate militari). In Una tigre nel parco egli definisce le radici psicologiche del suo atteggiamento: si rivede bambino (sì, anche Gadda fu bimbo), a giocare sui prati, imitando, appunto, una tigre:

“Volevo ad ogni costo andare a quattro zampe, nel folto più dei cespi e dell’erbe, onde procurarmi la gioiosa certezza (ogni qualvolta lo ritenessi necessario ed urgente) della mia immedesimazione in una «tigre reale».
Il no dell’Io cosmico si manifestò tutt’a un tratto, l’ultima volta che feci la tigre a quattro zampe, sotto la specie d’una strana marmellata (oh! non era di susine!) che prese a fertilizzare tra le mie dita quella jungla improvvisamente fetida: e nel suo luogo più folto e nel momento mio più tigrino. Ne piansi a dirotto benché tigre: fino alla completa abluzione delle zampe anteriori, cui dalla fedel nutrice venni amorosamente sottoposto, alla più vicina fontanella: e il mio ideale di riuscire una tigre reale vanì, ahi!, per sempre”.

L’infante manina gaddiana affonda, perciò, nella merda -  evento che innescherà, a suo dire, la mania totalizzante per l’ordine e il personale disgusto per cani e cagnette, seminatori di cioccolatini e polpette (e disgusto per i polli, i pesci, i gatti; per la vita in generale):

“Il sole e le luci declinavano verso la loro dolcezza, allorché il figlio discese da Simposio, o forse dalle Leggi, e, senza preveder, aprì la porta di sala. Vi vide la mamma, con gli occhi arrossati dalle lacrime, tener crocchio: all'impiedi: e intorno, come una congiura che tenga finalmente la sua vittima, Peppa, Beppina, Poronga, polli, peone, la vecchia emiplegica del venerdì, la moglie nana e ingobbita dell'affossamorti, nera come una blatta, e il gatto, e la gatta tirati dal fiuto del pesce: ma fissavano il cagnolino del Poronga, lercio, che ora tremava e dava segni, il vile, d'aver paura dei due gatti, dopo aver annusato a lungo e libidinoso le scarpe di tutti e anche pisciato sotto la tavola. Ma il filo della piscia aveva poi progredito per suo conto verso il camino. E sul piatto il pesce morto, fetente. Era enorme, giallo, con gli occhi molli e cianotici dopo l'impudicizia e la nudità; con la bocca rotondo-aperta pareva gli avessero dato a suggere, per finirlo, il tubo del gas. E nel cestello i funghi dall'odor di piedi; per aria mosche e anzi alcuni mosconi, due calabroni, una o forse due vespe, un farfallone impazzito contro la specchiera: e, computò subito, stringendo i denti, un adeguato contigente di pulci. La rabbia, una rabbia infernale, non alterò tuttavia la sua faccia. Aveva una speciale capacità d'odio senza alterazioni fisiognomiche. Era, forse, un timido. Ma più frequentemente veniva ritenuto un imbecille. Si sentì mortificato, stanco. L'antica ossessione della folla: l'orrore de' compagni di scuola, dei loro piedi, della loro refezione di croconsuelo; il fetore della «ricreazione», il diavolìo sciocco; le lunghe processioni verso gli orinatoi intasati, in ordine, due a due; la imperativa maestra che diceva basta a chi la faceva troppo lunga: alcuni rimandavano dunque il saldo a un tempo migliore. Il disgusto che lo aveva tenuto fanciullo, per tutti gli anni di scuola, il disprezzo che nei mesi dopo guerra aveva rivolto alle voci dei cosiddetti uomini: per le vie di Pastrufazio s'era veduto cacciare, come fosse una belva, dalla loro carità inferocita, di uomini: di consorzio, di mille. Egli era uno …
La turpe invasione della folla… Gli zoccoli, i piedi: nella casa che avrebbe dovuto esser sua… I calcagni color fianta, i diti, divisibili per 10, con le unghie… e la piscia del cane vile, pulcioso, con occhio destro pieno di marmellata, dentro cui sguazzavano cicìk e ciciàk le piante quadrupedanti di quegli zoccoli. Un rutto enorme, inutilità gli parvero gli anni, dopo le scempiaggini di cui s' erano infarciti i suoi maggiori…”.

Così l’intrattabile ingegnere ne La cognizione del dolore.
Che gli animalisti si acquietino, tuttavia.
Goethe e Gadda non li legge più nessuno.


(1) Brano tratto da Stanley Core, Cani e padroni: come trovare il cane ideale per la propria personalità, 1999

Nessun commento:

Posta un commento