domenica 29 giugno 2014

L'incipit della domenica - Giovanni Papini, Un uomo finito

Un altro mezzo capolavoro nascosto della letteratura italiana. Pubblicato nel 1912, ma scritto già dal 1910. Nei primi capitoli del romanzo, Papini tratteggia i propri lineamenti infantili di figura scontrosa e solitaria che scopre gradatamente, per continue sorprese e causalità, il sapere, la lettura e la scrittura: egli si compiace e annega in queste terre incognite e vastissime che cerca di dominare e domare con un impeto d’erudizione quasi folle; e destinato allo scacco.
Un uomo finito è un’autobiografia di fallimenti scritta ad appena trent’anni; fallimenti da parte di un’anima che ambiva alla totalità. Di un’anima enciclopedica, che, tesa a ergersi oltre tutti i limiti, finiva poi per precipitare nell’angustia del presente (ecco perché: un uomo finito). La stessa ansia porterà in seguito lo scrittore a coinvolgersi nelle esperienze più estreme e brucianti dei primi decenni del secolo: l’interventismo durante il primo conflitto mondiale, la resipiscenza e la denuncia degli orrori della guerra, l’adesione al fascismo, la conversione al cattolicesimo. Un uomo finito risente in nuce di tali continue tensioni e brusche virate; il che dona, a distanza di un secolo, una straordinaria complessità psicologica all'opera (al netto dei connaturati difetti retorici) – complessità derivata da quelle esacerbate accelerazioni dell’animo che portarono il fiorentino al variegato panorama della sua produzione: dai meravigliosi arabeschi kafkiani dei racconti giovanili (Il tragico quotidiano, Il pilota cieco) alle invettive antiaccademiche, dall'apologetica cristiana sino alle suggestioni più scopertamente irrazionalistiche del Novecento.

Giovanni Papini
Io non son mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza.
Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell' innocenza; sorprese della scoperta quotidiana dell'universo: che son mai? Non le conosco o non le rammento. L'ho sapute dai libri, dopo; le indovino, ora, nei ragazzi che vedo; ho sentite e provate per la prima volta in me, passati i vent'anni, in qualche attimo felice di armistizio o di abbandono. Fanciullezza è amore, è letizia, è spensieratezza ed io mi vedo nel passato, sempre, separato, triste, meditante.
Fin da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso — né so il perché. Forse perché i miei eran poveri o perché non ero nato come gli altri ? Non so: ricordo soltanto che una zia giovane mi dette il soprannome di vecchio a sei o sett'anni e che tutti i parenti l'accettarono. E difatti me ne stavo il più del tempo serio e accigliato : discorrevo pochissimo, anche cogli altri ragazzi; i complimenti mi davan noia ; i gestri mi facevan dispetto; e al chiasso sfrenato dei compagni dell'età più bella preferivo la solitudine dei cantucci più riparati della nostra casa piccina, povera e buia. Ero, insomma, quel che le
signore col cappello chiamano un ‘bambino scontroso’ e le donne in capelli ‘un rospo’.
Avevan ragione : dovevo essere, ed ero, tremendamente antipatico a tutti. E mi ricordo che sentivo benissimo intorno a me questa antipatia la quale mi faceva più timido, più malinconico, più imbronciato che mai.
Quando mi ritrovavo per caso con altri ragazzi non entravo quasi mai nei loro giochi. Mi piaceva star da parte a guardarli coi miei occhi verdi e seri di giudice e di nemico. Non per invidia : era piuttosto disprezzo quel che sentivo dentro in quei momenti. Fin da quel tempo incominciò la guerra fra me e gli uomini. Io li sfuggivo e loro mi trascuravano ; non li amavo e mi odiavano.
Fuori, nei giardini, chi mi scacciava e chi mi rideva dietro ; a scuola mi tiravano i riccioli o mi accusavano ai maestri ; in campagna, anche in villa dal nonno, i ragazzi dei contadini mi tiravan le sassate, senza che avessi fatto nulla a nessuno, quasi sentissero ch'era d'un'altra razza. I parenti m'invitavano o mi carezzavano quando proprio non potevan farne a meno, per non mostrare dinanzi agli altri una parzialità troppo indecente, ma io m'accorgevo benissimo della finzione e dello sforzo e mi nascondevo e tacevo e ad ogni loro parola rispondevo sgarbato ed acerbo.
Un ricordo più di tutti gli altri s'è inciso nel mio cuore : umide serate domenicali di novembre o dicembre, in casa del nonno, col vino caldo in mezzo alla tavola, dentro a una zuppiera, sotto il gran lume a petrolio bronzato ; col vassoio delle bruciate accosto e tutta la famiglia — zii e zie, cugini e cugine in quantità — coi visi rossi attorno.

sabato 28 giugno 2014

Adolf Hitler, uno dei tanti

G. Luca Chiovelli

Una bella vetrinetta in pieno centro. Eccoli lì Hitler e Mussolini in automobile. Labari con svastica, ancora Hitler in varie pose, qualche gerarca nazista che non mi premuro di identificare. Dalla parte opposta della strada, fra puzzo di orina e DVD pornografici di varia inclinazione, calendari di Benito Mussolini, libri editi durante il Ventennio, materiale celebrativo e agiografico del colonialismo.

Domande alle scolaresche italiane.
L'attacco di Via Rasella nel 1944 da chi fu compiuto?
Risposta di una larga parte: dalle Brigate Rosse.

La Triplice Alleanza?
Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Germania, Spagna ...
E l'Impero d'Austria e Ungheria? Sì, anche quello, con cautela ...

2014, o meglio
Anno 92 dell'Era Fascista

D’altra parte, perché no?

Risposta che fa il paio con John Belushi in Animal house; per risollevare il morale della confraternita universitaria egli si lancia in un discorso patriottico: “Animo! Dobbiamo reagire, come i nostri padri! Come quando i Tedeschi attaccarono Pearl Harbour …”

Dialogo con un conoscente:
Io: Non sembra corretto chiedere ai testimoni se ricordano Bossetti nei pressi della zona del delitto … il volto è ormai familiare, si rischia un sì schiacciante, come con Valpreda
Egli: Che Valpreda?
Io: Quando ci fu il riconoscimento da parte dei testimoni misero Valpreda (spettinato e in disordine) assieme a quattro funzionari in giacca e cravatta … Ovviamente la gente riconobbe lui e soltanto lui …
Egli: E va bene, tanto era lui …

Ecco il mostro
A un quiz. 
"Cara signora, allora, il primo articolo della Costituzione è: l’Italia è una Repubblica fondata sul ??" … "Sulla famiglia!"
Risposta non del tutto inaccurata …

Il passato come un fondale indistinto in cui tutti i personaggi sono intercambiabili e non passibili di giudizio: un'ammucchiata goliardica di figurine come nell'interno della copertina di Sgt. Pepper's lonely hearts club band dei Beatles.

mercoledì 25 giugno 2014

Hubert Mingarelli, Un pasto in inverno

Hubert Mingarelli, Un pasto in inverno
Edizioni Nutrimenti, pp. 109, euro 12

Patrizia Vincenzoni

Tre soldati, una palestra che ha perduto la propria funzione originaria, la sporcizia che si immagina guadagnare terreno sui corpi degli uomini costantemente  avvolti dalle divise diventate come una seconda pelle, un nuovo organo, una escrescenza che corrompe non solo la superficie esterna  dei corpi, ma modifica  il modo di pensare di sentire  di percepire e di camminare.  Stivali calzati da piedi ormai tutt'uno con essi, dei quali si intuiscono vesciche e cattivo odore. Occhi stanchi, arrossati, sanguigni di una passione smorta che cerca di sostenere una stanchezza inenarrabile, che si aggancia ad una abiezione morale dalla quale immaginare comunque di poter fuggire, senza riuscire a farlo. Freddo. Un freddo che corrompe le ossa, la stabilità, non solo fisica, che diventa una coltre di gelo sulle cose, sulla natura che si nasconde e si offre come un deserto ghiacciato e impenetrabile. Questo lo scenario con il quale entriamo in contatto, ben reso da Hubert Mingarelli, autore di questo breve romanzo scritto con una prosa essenziale capace di accennare all'orrore della guerra che, mai sazia, partorisce altri orrori. Scenari che si ripetono,  diversi soltanto nella geografia dei luoghi, perché le guerre si somigliano tutte, cosi come i soldati che ne fanno parte.  Un pasto in inverno ci conduce in Polonia, durante la seconda guerra mondiale, all'interno di un campo militare tedesco dove, quotidianamente, vengono sterminati, attraverso la fucilazione, gli ebrei fatti prigionieri. Per sfuggire al compito di far parte del battaglione che quel giorno avrebbe compiuto la carneficina, tre soldati riescono a ottenere dal comandante il permesso di andare in missione all'esterno del campo, piuttosto che partecipare alla carneficina quotidiana. E, prima dell'alba, senza rancio, escono e s'incamminano entro un paesaggio reso spettrale non solo dal gelo, ma anche dalla situazione che i dialoghi, molto incisivi e senza sbavature retoriche, riescono a rendere. In un solo giorno Emmerich, Bauer e l'altro, colui che narra, percorrono un anello di territorio alla ricerca di possibili prigionieri, per rendere credibile la giornata in perlustrazione cosi da poter ottenere un'altra tregua dalle sessioni di  fucilazione. Riescono a trovare un giovane ebreo, nascosto in un buco coperto dalla neve, grazie alla precisione, drammatica, dello sguardo di Emmerich.

Laboratorio di traduzione: Philip Schultz: Erranti senza ali (Due, seconda parte)

Continua con la seconda parte di Due la pubblicazione dei testi di Philip Schultz tradotti nel corso del laboratorio di traduzione organizzato da Monteverdelegge e coordinato da Fiorenza Mormile presso la bibliolibreria Plautilla. (Cliccare qui per leggere la prima parte)

5
Nemmeno uno dei tre
sordomuti neri
che vengono qui ogni giorno
possiede un cane. Stanno seduti
sotto il fragrante declino
della grande quercia ricoperta di muschio
e parlano con gli occhi
e con le mani. Amano i cani
tanto da struggersi,
ma come me,
non ce la fanno a averne uno.
Chiunque ne abbia mai
avuto uno sa
cosa significhi possedere l’amore.

6
A volte
la bolla
dentro la mia testa
fa più rumore
di quella di fuori.
Questo accade quando
il mio cervello s’inceppa
e il mio coraggio
si rintana dentro
un bozzolo d’ansia,
ipersensibile
alle interpretazioni esterne…
Questo accade quando
le bugie che racconto
su di me
nella mente degli altri
risuonano furiosamente- è
per questo
che mi hanno fatto un elettroshock -
perché
me ne stavo sempre
immobile,
nell’attesa
di essere devastato? 


martedì 24 giugno 2014

Giorgio Lo Cascio, Bob Dylan e altre considerazioni di contorno

G. Luca Chiovelli

Pagina 292 de Il dizionario dei cantautori:

“Giorgio Lo Cascio nato nel 1953 e scomparso a soli 48 anni, assieme ad Antonello Venditti, Francesco De Gregori ed Ernesto Bassignano, è stato uno dei promotori della 'scuola romana', il movimento nato intorno al Folk Studio di Trastevere. Autore di alcuni album, peraltro introvabili, documenta quel periodo nella biografia De Gregori (Muzzio 1990) e inizia la carriera proprio al suo fianco, nei primi anni Settanta. In quegli anni, insieme a Bassignano, Edoardo De Angelis e lo stesso De Gregori, allestisce al Folkstudio lo spettacolo I giovani del folk”.

Quattordici righe e mezza (14,5): a tanto si riduce Giorgio Lo Cascio in un dizionario di seicento pagine (600) dedicato esclusivamente ai cantautori italiani.
È incredibile come su certe figure del nostro recentissimo passato si eserciti, ancor oggi, un oblio tenace (tanto da sbagliare la data di nascita); altrettanto incredibile la mancanza di curiosità degli estensori della voce 'Giorgio Lo Cascio' (in un dizionario riservato esclusivamente al cantautorato italiano, ricordiamolo); non tanto incredibile, on the contrary, è la trascuratezza nell'uso della punteggiatura e della sintassi da parte degli estensori della voce ‘Giorgio Lo Cascio’: a rileggerli, quei tre periodi, che costituiscono ciò che resta della memoria di Giorgio Lo Cascio, suonano instabili, goffi, caracollanti.

La punteggiatura. D'Annunzio chiamava le virgole "insopportabili vermetti"; e va bene: poteva permetterselo. Come non perdonare tale idiosincrasia a chi ha donato all'umanità tali versi:

Quel che ieri mi nocque, or non mi nuoce;
Quello che mi toccò, più non mi tocca.
È paga nel mio cuore ogni dimanda,
Come l'acqua tra l'una e l'altra voce.
Così discendo al mare;
Così veleggio. E per la dolce landa
Quinci è un cantare e quindi altro cantare.

Il punto e virgola, i due punti, il punto esclamativo: che fine hanno fatto?
Hanno fatto la fine di Giorgio Lo Cascio.
Punto, punto e virgola. Punto e un punto e virgola! … Troppa roba! … Ah, lascia fare! Che dicono che noi siamo provinciali... siamo tirati ... Ma sì... fai vedere che abbondiamo ... abbundandis in abbundandum.

lunedì 23 giugno 2014

"La dismissione" di Ermanno Rea, una rivisitazione

Elvira Sessa
Bagnoli, la vedi? “Era una fumifera città rossa e nera (la chiamavano Ferropoli) sovrastata da un cielo incandescente, pieno di lampi: si srotolava per chilometri tra strutture verticali e orizzontali, spiazzi, fasci di binari, carriponte lunghi sino a ottanta metri e oltre, neri cumuli di residui minerali, strade, colmate a mare, pontili, navi, lampioni, camion, gru alte come palazzi”. 
E quegli "odori acri che facevano battere il cuore come un afrodisiaco", li senti mentre salgono fino alla collina di Posillipo e ti invade un tramonto bruciato?   
Era così la Bagnoli del fiorire dell'Ilva, nei primi decenni del Novecento: “introduceva in una città inquinata - la Napoli della guerra fredda, dell'abusivismo selvaggio, del contrabbando - valori inusuali: la solidarietà; l'orgoglio di chi si guadagna la vita esponendo ogni giorno il proprio torace alle temperature dell'altoforno; l'etica del lavoro; il senso della legalità...".
Sin dalle prime righe del romanzo, ti afferri a quella contro-cartolina di Napoli, scivoli nella tuta da operaio e indossi il casco giallo. Ti svegli alle sei e mezzo del mattino con il primo fischio della sirena dell'acciaieria, entri al suo piano terra, inizi a sentire l’odore di muffa del posto di ristoro degli operai turnisti, ti lasci portare dai suoi corridoi lunghi e fuligginosi, ami percorrerla con il chiarore a chiazze della luna, quando è assorta in un silenzio di “cattedrale con un'unica navata grigio-azzurra dall'alta volta a coste e i fianchi arabescati da geometriche carpenterie”. Ora ti arrampichi fino a raggiungere le finestrature sotto il tetto, accedi alle colate ed esclami “eccolo il mio impianto”.

domenica 22 giugno 2014

L'incipit della domenica - Claudio Lolli, Canzoni

Claudio Lolli (1950), bolognese, musicista, scrittore e professore di liceo, ha una tendenza irresistibile a passare inosservato. Non che non abbia avuto successo in passato: anzi, ha avuto un discreto seguito; non che non abbia avuto estimatori: anzi, parecchi, tuttora, lo apprezzano; no, forse per una mancanza di empatia, o di solide pubbliche relazioni, egli non rientra mai fra i santini del cantautorato italiano: quei nomi ormai proverbiali, sempre sulla punta della lingua della citazione, anche da parte di chi la musica la ascolta distrattamente. Fra i santini - citatissimi, sempre, pure a sproposito - egli non c'è; quasi mai, almeno. Vi manca pure - fra i santini - Giorgio Lo Cascio (1951-2001): Giorgio Lo Cascio, il romano del Folkstudio, quello che suonava assieme a Francesco De Gregori e Antonello Venditti: autore di eccellenti  brani (fra cui il capolavoro Fiori chiari e fiori scuri), di lui si ricorda ormai pochissimo (si fatica pure a trovarne i dischi).
Perché accadono queste cose? E chi lo sa. Io non lo so. Forse la gente è pigra, forse è conformista. Forse alla gente piacciono i santini e guai a toccarglieli.

Claudio Lolli
HO VISTO ANCHE GLI ZINGARI FELICI
E' vero che dalle finestre
non riusciamo a vedere la luce
perché la notte vince sempre sul giorno
e la notte sangue non ne produce,
è vero che la nostra aria
diventa sempre più ragazzina
e si fa correre dietro
lungo le strade senza uscita,
è vero che non riusciamo a parlare
e che parliamo sempre troppo.

E' vero che sputiamo per terra
quando vediamo passare un gobbo,
un tredici o un ubriaco
o quando non vogliamo incrinare
il meraviglioso equilibrio
di un'obesità senza fine,
di una felicità senza peso.

E' vero che non vogliamo pagare
la colpa di non avere colpe
e che preferiamo morire
piuttosto che abbassare la faccia, è vero
cerchiamo l'amore sempre
nelle braccia sbagliate.

E' vero che non vogliamo cambiare
il nostro inverno in estate,
è vero che i poeti ci fanno paura
perché i poeti accarezzano troppo le gobbe,
amano l'odore delle armi
e odiano la fine della giornata.

Perché i poeti aprono sempre la loro finestra
anche se noi diciamo che è
una finestra sbagliata.

E Siamo noi a far ricca la terra
noi che sopportiamo
la malattia del sonno e la malaria
noi mandiamo al raccolto cotone, riso e grano,
e noi piantiamo il mais
su tutto l'altopiano.

Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane,
le nostre braccia arrivano
ogni giorno più lontane.
Da noi vengono i tesori alla terra carpiti,
con che poi tutti gli altri
restano favoriti.

E siamo noi a far bella la luna
con la nostra vita
coperta di stracci e di sassi di vetro.
Quella vita che gli altri ci respingono indietro
come un insulto,
come un ragno nella stanza.

Riprendiamola in mano, riprendiamola intera,
riprendiamoci la vita,
la terra, la luna e l'abbondanza.
E' vero che non ci capiamo
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e che non facciamo mai niente.

E' vero che spesso la strada sembra un inferno
o una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli.
E' vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.

Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra.
Ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra.
Ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.

ANNA DI FRANCIA

Anna di Francia che arriva,
Anna che ride, Anna che scherza,
Anna che ascolta, che parla
Anna che chiede, vuole sapere
come andremo a finire la sera,
Anna la piazza ti ama, ti ama con me.
Anna racconta: l'ultima Francia
com'era grigia, com'era triste,
Anna racconta: il nuovo lavoro
sempre camicie, solo camicie,
Anna ti sembra di essere pazza
Anna la piazza, la piazza ti ama con me.

sabato 21 giugno 2014

In food we trust: un tutorial in cucina


Lucina Balboni*

Presentazione & show cooking: mercato centrale di Firenze 19/6/2014
Titolo del libro: In food we trust
Nome in codice autori: GNAMBOX
alias Riccardo Casiraghi e Stefano Peleari, ex interior designer e grafico pubblicitario. Milanesi.

Appena li ho visti ho pensato: sono i Dolce & Gabbana del food. Genere hipster, cool, casual, high tech. 

All'ennesima parola inglese che mi hanno suscitato mi sono fermata vergognandomi un po'. D'altra parte loro sono italiani, ma pubblicano un libro (Edito da Mondadori) con titolo in inglese, scelta che mi pare essere la naturale conseguenza dei loro esordi nel mondo della gastronomia.
Riccardo Casiraghi e Stefano Peleari in un periodo di crisi lavorativa si inventano un nuovo percorso, come sta facendo tutta la generazione intorno ai 30 anni (3.0?), dando vita in questo caso a un blog che si occupa di cibo (settore che pare non avere crisi).  
Il blog si chiama gnambox,  sintesi tra un'espressione onomatopeica da fumetto (gnam, che in inglese significa anche: rosicchiare) e box, che sempre in inglese significa scatola, contenitore, casella (di posta, per esempio). Il blog nasce «dall'amore per la cucina, passione per il cibo e dal desiderio di incontrare le persone che ammiriamo», come loro stessi scrivono. Utilizzano molto i social network, specialmente instagram e facebook (paradisi anglofoni) per diffondere e condividere idee, ricette ed esperienze sempre riguardanti il cibo. Evidentemente appassionati e curiosi, postano in rete le loro esperienze gustative e le ricette che sperimentano nella quotidianità. Fin qui nulla di nuovo: di blog a sfondo gastro-qualcosa ce ne sono migliaia.

martedì 17 giugno 2014

mvl cinema: Solo gli amanti sopravvivono

Solo gli amanti sopravvivono (2013)
Regia: Jim Jarmusch
Sceneggiatura: Jim Jarmusch
Interpreti: Tim Hiddleston, Tilda Swinton, John Hurt, Mia Wasikowska
Voto: 6

Un film di Jim Jarmusch, sicuramente, ma declinato in tono minore; insidiato dalla maniera; eppure da vedere; notturno, rallentato, sospeso fra la rassegnazione e un rilassato e divertito tono kitsch. 
Due vampiri, amanti millenari, depositari di una sapienza profonda, eppure proiettati verso il futuro incolore della postmodernità, popolata da zombies, ovvero umani: razza superficiale e dal sangue infetto ... Adam (Tom Hiddleston) vive a Detroit; è sfibrato, deluso; colleziona chitarre rarissime, è un esteta, già amico dei decadenti francesi, di Byron, Shelley e Tesla: e medita il suicidio ... Eve (Tilda Swinton) vive a Tangeri, è una lettrice onnivora e instancabile (conosce decine di lingue), ma l'estenuata decadence non le ha tolto ancora la fame di vita ... 
La prima ora di film scorre lentamente, ed è un pregio ... Ecco Adamo ed Eva (Adam e Eve, troppo facili questi nomi!) riuniti a Detroit; ecco l'amico Christopher Marlowe (John Hurt; il drammaturgo secentesco che, scopriamo, oltre a essere un vampiro, è l'autore segreto delle opere di Shakespeare); ecco i Nostri procurarsi il sangue negli ospedali tramite medici corrotti e compiacenti (e celandosi sotto il nome di Dottor Faust o Dottor Caligari) oppure concedersi escursioni notturne in visita a vecchi teatri trasformati in parcheggio ... o in visita alla vecchia casa di Jack White (del gruppo rock White Stripes), ultimo di sette fratelli ... oppure gustare languidamente sorbetti ematici ... 
La visita della sorella Ava (Mia Wasikowska) porterà scompiglio nel loro menage tanto da costringerli a fuggire a Tangeri. Senza più cibo, e allo stremo delle forze, essi decideranno di recuperare gli antichi istinti - le innate abitudini di predatori.

* * * * *

Non è la credibilità che interessa ... o la sospensione dell'incredulità ... o l'eccesso didascalico e kitsch, come spiegato ... ma l'atmosfera snervata e stancamente cupa, che lascia indovinare la rivelazione ultima ... ovviamente già sentita ... sentita milioni di volte ... miliardi ... trita eppur vera e maestosa: l'amore è totale, eterno. E solo l'amore, fedele e appassionato (quello che non si cura delle distanze) assicura l'eternità - tramite uno squisito contrappasso.
In aereo (i nostri si spostano solo con voli notturni) Eve legge assorta il sonetto 116 di William Shakespeare (dovremmo dire: di Christopher Marlowe):

Non sarà che alle nozze di animi costanti
Io ammetta impedimenti, amore non è amore
Che muta quando scopre mutamenti,
O a separarsi inclina quando altri si separa.
Oh no, è un faro irremovibile
Che mira la tempesta e mai ne viene scosso;
Esso è la stella di ogni sperduta nave,
Remoto il suo valore, pur se il suo luogo noto.
Amore non soggiace al tempo, anche se labbra
E rosee guance cadranno sotto la sua arcuata falce.
Amore non muta in brevi ore e settimane,
Ma impavido resiste fino al giorno del Giudizio.
Se questo è errore, e sarà contro me provato,
allora io non ho mai scritto, e mai nessuno ha amato.

Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O no; it is an ever-fixed mark, 
That looks on tempests, and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth's unknown, although his height be taken.
Love's not Time's fool, though rosy lips and cheeks 
Within his bending sickle's compass come; 
Love alters not with his brief hours and weeks, 
But bears it out even to the edge of doom.
If this be error and upon me proved,
I never writ, nor no man ever loved

E questo è quanto.
Non c'è altro da aggiungere.

* * * * * 

Il film si fregia di altri innocui sberleffi: nella casa di Adam appaiono diverse foto di celebrità conosciute in vita dal vampiro: Kafka, Wilde, Keaton sono della partita; assieme a loro s'intravede il ritratto di Neil Young, il cantante e chitarrista canadese già autore della colonna sonora del capolavoro di Jarmusch Dead man: Young è ancora vivo e vegeto, però.
I nomi sul passaporto di Adam e Eve: Stephen Dedalus (da Joyce, ovvio) e Daisy Buchanan, da Il grande Gatsby di Fitzgerald. E via così. 

* * * * *

La colonna sonora, eccellente, è opera simbiotica del liutista sperimentale Jozef Van Wissem e degli Sqürl; dolorosa e psichedelicamente sfasata: da ascoltare subito, in penombra, fra un ghiacciolo al sangue e l'altro.

lunedì 16 giugno 2014

Street art, l'arte che nasce fuori dei musei


Foto di Patrizia Vincenzoni
A cura del Cantiere 24-MVL Gruppo Reportage*

[cliccare per ingrandire]
Scritte, provocazioni, figure, e veri e propri dipinti su muri calcinati dal tempo, su palazzi dismessi, su capannoni in rovina; in aree annientate dal declino industriale – dal declino della nazione.


Foto di Patrizia Vincenzoni
La street art fiorisce sulle rovine di un’Italia abbandonata e periferica oppure si appropria della fatiscenza indotta dall’incuria (vecchie caserme e magazzini, uffici statali o del terziario avanzato lasciati marcire senza personale, recinzioni condominiali, contrafforti di cemento, viadotti, sottopassaggi, immani colonnati, piloni autostradali: la città di passaggio, insomma, quella che vediamo dai finestrini, orribilmente funzionale,tirata su con avarizia di bellezza e intelligenza, diviene la tela di improvvisazioni e di tableau pittorici in cui vibra la rivendicazione politica, la provocazione, lo sberleffo, l'ansia di testimoniare se stessi; oppure, non ultimo, la voglia di resuscitare la solitudine e la bruttezza nichiliste delle neoarchitetture metropolitane a una nuova arte, comunitaria, solidale e gioiosa.

Tale protesta (è indubbio che lo sia) si nutre dell’attualità (No Tav, Movimento per la Casa) e dell’enorme giacimento di status symbol epocali (Frida Kahlo, Nelson Mandela, Martin Luther King …) riconducibili a un sentire ‘contro’; ma si avvale anche di personaggi che, pur neutrali o addirittura apolitici, si caricano d’una forza eversiva inusitata (Yuri Gagarin, Elvis Presley, James Dean, Dante, Quentin Tarantino, Giovanni Paolo II).

Foto di Patrizia Vincenzoni
Perché avviene questo? Probabilmente il sentire comune degli artisti segue un calcolo preciso (forse inconscio, ma non si escluda la premeditazione): il volto di Elvis Presley, ad esempio; Elvis Presley non è mai stato semplicemente, puramente, Elvis Presley: già in vita avvenne la trasfigurazione da cantante scandaloso e attore minore hollywoodiano in simbolo potente (ribelle, sessualmente ammiccante, ma anche bravo ragazzo nazionalista: ricordate i film in divisa?). Il suo volto, insomma, mutò in oggetto di piena riconoscibilità commerciale, di venerazione, di pubblicità sfrenata, di studio cinematografico. Un’icona, insomma; il riassunto di un sentire largo e condiviso (da milioni di individui) tanto che, parecchi di noi, alla domanda: chi è il cantante rock americano più famoso? risponderanno: Elvis Presley! Riproporre le sue fattezze, quindi, fa sì che il messaggio ‘contro’ si avvalga di tutta la fama e la forza simbolica già accumulata nei decenni trascorsi: effigiare Presley significa, quindi, dire no (allo Stato, all’ingiustizia, ai genitori oppressivi, al razzismo: qualsiasi cosa vogliate voi) alla massima potenza.
In tal senso la street art è vicinissima all pop art di Andy Warhol che, riproducendo Liz Taylor o Marylyn Monroe, non faceva che sfruttare (furbamente, nel suo caso) la potenza iconica e mediatica già accumulata dai loro volti grazie alla pubblicità sfrenata, al delirio degli ammiratori, al divismo.

domenica 15 giugno 2014

Le note di Leo/L'ultimo concerto greco

Un appuntamento con la musica, per traghettarci dalla domenica al lunedì.
Leonardo Castellucci* e Raethia Corsini

Dopo quasi un mese di silenzio, riprendiamo per qualche puntata ancora queste note della domenica per un tributo a un Paese, la Grecia. Un anno fa chiudeva i battenti l'Orchestra Nazionale Greca. Come se chiudesse l'orchestra della Scala di Milano o dell'Opera di Roma (che pure non sono messe benissimo, specie la seconda).

In Grecia però non è un'ipotesi ma realtà. È accaduto vicino, vicinissimo a noi in un Paese nel quale noi fondiamo le radici culturali. Un Paese del quale pare ci si sia dimenticati, come se avessimo paura di guardare il baratro nel quale avremmo potuto tutti cadere. Della Grecia ci sono arrivate notizie convulse all'inizio della crisi, sottoforma di spauracchio di come avremmo potuto "finire" anche noi. Noi. Ma no dai, noi no: abbiamo raggiunto una certa cultura, una certa economia, tante conquiste sociali sono ormai acquisite. Erano acquisite anche in Grecia. Non c’è nulla che si può dare per scontato. Mai. E pare proprio questo il significato delle lacrime di una delle musiciste dell'Orchestra nazionale Greca, chiusa un anno fa per mancanza di fondi. Leo ci propone l'ultimo concerto, e accompagna la sua proposta con questa riflessione: «In uno stato di commozione profonda i primi due violini suonano e piangono, gli altri orchestrali anche. Evviva la musica che aiuta a guarire, a capire e che non ci abbandona mai anche quando la vita sembra chiudersi». 

Il brano eseguito è la Variazione IX (adagio) dalle Enigma Variations (un titolo eloquente per la circostanza). La musica fu composta da Edward William Elgar, che  pare scrisse ispirandosi ai suoi amici: "to my friends pictured within".

Noi la dedichiamo al popolo greco, che è nostro amico. E le liste politiche non c'entrano. 



*Leonardo Castellucci, fine conoscitore di musica, giornalista, scrittore, oggi direttore editoriale di Cinquesensi Editore.

L'incipit della domenica - James G. Ballard, Crash

Come saranno gli ultimi uomini? Sempre meno umani, risponde Ballard - e sempre meno distinguibili dalle macchine. Organico e inorganico sono permeabili l'uno all'altro. Computer e automi si umanizzano; gli uomini - privi di emozioni, asettici, composti e afoni - si meccanizzano. Non è un caso che David Cronenberg (il Cronenberg prima maniera), profeta della nuova carne, abbia tratto uno dei suoi film migliori proprio dal romanzo dell'inglese.
Trasformazioni: dell'umano, e degli impulsi primari che mossero l'uomo per millenni: Amore e Morte. In Crash l'Amore degenera nel sesso, ricercato inconsciamente e spasmodicamente quale tentativo di smuovere gli ultimi barbagli di passione; la Morte in necrofilia, come spettacolo compiaciuto proprio della fine d'ogni passione.
Amplessi su autovetture lanciate a velocità folli verso il nulla; incidenti rovinosi; cicatrici; mutilazioni; duelli; configurazioni di rottami e corpi; tableau in cui il metallo e la carne si struggono l'uno nell'altro: Crash si compone di questi quadri, osservati con freddezza glaciale, e sublimati, tuttavia, da una lingua a tratti turgida e ricca di metafore.
La fine dell'umanità - annuncia Ballard - non sarà annunciata da trombe apocalittiche; non avverrà nelle piane della Gehenna; troverà luogo fra le aree globalizzate delle megalopoli, fra aeroporti e stazioni e autonoleggi d'ultima generazione, al limitare delle centrali dello svago e della vacanza - non luoghi ritagliati dai rettifili di autostrade che ci collegano, inutilmente e sempre più velocemente, gli uni con gli altri.

Vaughan è morto ieri nel suo ultimo scontro. Nel corso della nostra amicizia, aveva fatto le prove della sua morte in molti scontri, ma il suo ultimo è stato proprio e semplicemente un incidente — l'unico. Guidata in rotta di collisione verso la berlina dell'attrice cinematografica, la sua macchina ha saltato il parapetto del cavalcavia dell'Aeroporto di Londra ed è precipitata, sfondandolo, sul tetto di un autobus carico di passeggeri delle linee aeree. Quando, un'ora più tardi, mi sono aperto la strada fra i tecnici della polizia, i corpi schiacciati dei turisti del tutto-completo giacevano ancora sui sedili vinilici, come un'emorraggia del sole. Reggendosi al braccio dell'autista, l'attrice cinematografica Elizabeth Taylor, con la quale Vaughan aveva per tanti mesi sognato di morire, stava sola sotto il lampeggìo circolare delle ambulanze. Quando mi sono chinato sul corpo di Vaughan, s'è portata alla gola una mano guantata.
La posizione di Vaughan le aveva forse rivelato il tipo di morte da lui escogitato per lei? Nelle ultime settimane di vita, Vaughan non aveva pensato ad altro che alla morte di lei, a quell'incoronazione di ferite da lui in-scenata con la devozione di un conte del Collegio d'araldica. Le pareti del suo appartamento presso gli studi cinematografici di Shepperton erano tappezzate di foto da lui scattate con lo zoom ogni mattina — ora dai ponti per pedoni delle autostrade dirette a ovest, ora dal tetto del parcheggio a più piani degli studi — dell'uscita di lei dall'albergo londinese. I particolari ingranditi delle ginocchia e delle mani di lei, dell'interno delle cosce e dell'apice sinistro della bocca, glieli preparavo io, con disagio, servendomi della copiatrice dell'ufficio; e quei pacchetti di foto stampate che gli consegnavo mi sembravano frammenti di un'ordinanza di morte. Nel suo appartamento, lo osservavo combinare i particolari del corpo di lei alle ferite grottesche riprodotte da un manuale di chirurgia plastica.
Nella sua visione di uno scontro automobilistico con l'attrice, Vaughan era ossessionato dal numero e dalla ripetizione di ferite e impatti — dal cromo morente e dal cedimento delle paratie antiurto delle due auto scontrantisi frontalmente in collisioni complesse che si ripetevano all'infinito come in una sequenza al rallentatore; dalle ferite identiche inflitte ai due corpi; dall'immagine del parabrezza frantumantesi come ghiaccio attorno al viso di lei nell'istante in cui essa ne sfondava la superficie oscurata come un'Afrodite emergente dalla morte; dalle fratture multiple delle cosce nel momento dell'impatto contro la leva del freno a mano, e, soprattutto, dalle ferite ai genitali di entrambi: l'utero di lei trafitto dal becco araldico dello stemma del fabbricante, il seme di lui sparso fino all'ultima goccia sulle scale luminose registranti in eterno la temperatura e il livello definitivi dei carburanti.

Solo in questi momenti, nel descrivermi quello che doveva essere il suo ultimo scontro, appariva calmo. Delle ferite e delle collisioni parlava con la tenerezza erotica di un amante a lungo separato dall'amata. Nel frugare tra le foto del suo appartamento, si teneva mezzo girato verso di me, e il suo inguine grave, dal profilo di pene semieretto, m'acquetava. Perché Vaughan sapeva che, fin quando mi avesse provocato col suo sesso, del quale usava con la trascuratezza di uno pronto a sbarazzarsene per sempre in qualunque momento, io non lo avrei mai lasciato...
Dieci giorni fa, rubandomi la macchina dal garage sotto il mio appartamento, aveva risalito a cozzi la rampa di cemento, come una macchina omicida scagliata fuori da una trappola. Ieri il suo corpo giaceva sotto le luci ad arco della polizia ai piedi del cavalcavia, velato da un delicato rabesco di sangue. La positura spezzata di gambe e braccia, l'insanguinata geometria del viso, sembravano parodiare le istantanee di ferite da scontri di cui erano tappezzate le pareti del suo appartamento. Ho abbassato lo sguardo per l'ultima volta sul suo inguine enorme, intriso di sangue. Venti metri più in là, illuminata dai fari circolari, l'attrice stava come librata sul braccio dell'autista. Vaughan aveva sognato di morire nell'istante dell'orgasmo di lei.

venerdì 13 giugno 2014

Riflessioni condivise sulla lettura (a Monteverde, e non solo)

Foto di Anna Maria Rava
Enza Bertoni
Un buonissimo e fecondissimo incontro quello avuto ieri da Plautilla, presso l'associazione Monteverdelegge con Lidia Ravera, assessore alla cultura della Regione Lazio. L'occasione era doppia: una conversazione su come si vivono oggi I promessi sposi (il testo condiviso del progetto Un libro un quartiere) e l'inaugurazione del nuovo spazio di aggregazione sociale all'interno del DSM. Ma alla fine questi due filoni si sono riuniti in uno solo: cosa si può fare perché si legga di più e perché la lettura non sia solo splendido piacere individuale, ma strumento di condivisione?
Alla presenza della Presidente del XII Municipio Cristina Maltese, dell'assessore alla cultura del municipio Tiziana Capriotti, della presidente della commissione alle politiche culturali Ginevra Gasperini, di Patrizia Vincenzoni, responsabile del centro diurno del DSM nonché monteverdeleggina della prima ora, e di tanti abitanti del quartiere, il dibattito sulla promozione alla lettura è stato alquanto ricco.
E' vero che in Italia si legge poco, ma tutto è lettura, anche un manuale di cucina, o di giardinaggio, il messaggino che i ragazzi si scrivono. Questi "sottospazi" forniscono aiuto a varie forme di sapere, e ci danno uno spaccato dei bisogni della nostra società.
Ho ascoltato Lidia Ravera non solo come figura istituzionale e scrittrice, ma come persona attenta e sensibile, incoraggiando con iniziative stimolanti che incuriosiscono i nostri giovanissimi, con letture vicine al loro mondo ed ai loro problemi. Questi suggerimenti suscitano movimenti profondi, gradimenti di pensieri che fanno lavorare su loro stessi nel pieno delle facoltà emotive.
L'assessore ci ha regalato un poco del suo tempo, con delle riflessioni condivise, dove la lettura insieme alla bellezza, l'arte, il teatro, la musica, aprono uno squarcio di luce per l'interiorità di ognuno.
Grazie Ravera, grazie Monteverdelegge !